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Tele Remake - In Treatment

Pubblicato il 8 maggio 2013 da Viviana Eramo


Tele Remake - In Treatment

In Treatment, nella sua formula originaria ideata da Hagai Levi in Israele e nella sua diretta filiazione statunitense (quella più celebre), è probabilmente il prodotto più rivoluzionario degli ultimi dieci anni in fatto di serialità televisiva.

La formula è di una semplicità spiazzante. Nello stesso periodo (dal 2005 in poi) in cui la serialità televisiva esplorava storie intricate che sommavano al loro interno decine di punti di vista diversi e un uso del tempo (narrativo) che sfidava l’uso comune di flashback e flashforward, Hagai Levi prima e l’HBO subito dopo sembravano ispirarsi, seppur liberamente, alle unità aristoteliche di tempo e spazio. Uno psicanalista, nel suo studio. Un paziente al giorno, ovvero per puntata, per mezz’ora (il tempo di ciascun episodio). Due luoghi (seppur con qualche eccezione): lo studio dello psicanalista e quello del suo supervisore. L’azione è relegata fuori, oltre le mura dei due studi. Ciò che lo spettatore vede e ascolta è unicamente legato a ciò che il paziente decide di raccontare. Il vero contenuto della narrazione, a cui il pubblico si appassiona, è un racconto orale e il dialogo che ne scaturisce tra analista e paziente. Gli unici montaggi permessi sono relativi ai controcampi, il resto lo fanno movimenti di macchina fluidi e lenti che più che interrogare gli spazi (sempre gli stessi, per l’appunto) scrutano i personaggi.

È tutta qui la formula di In Treatment, conosciuta al grande pubblico soprattutto nella versione statunitense con protagonista l’affascinante Gabriel Byrne. Dopo la produzione degli adattamenti serbo, rumeno e olandese, anche l’Italia - grazie a Wildside, Sky e La7 - ha avuto il suo In Treatment, in onda da inizio Aprile su pay-tv e prossimamente in chiaro.

Sgombriamo subito il campo dal tipo di considerazione che sembra aver preoccupato maggiormente i commentatori. La serie, per la sua stessa storia produttiva, non può che essere un remake, quindi un adattamento. Non ci pare utile rinvenire la mancanza di originalità della sceneggiatura. È la stessa natura dell’operazione ad implicare che personaggi e dialoghi si ripetano, esattamente come fu per la versione statunitense a partire dalla versione israeliana. La vera sfida consiste, piuttosto, nell’elaborare un prodotto organico, compiuto e credibile, nella misura in cui ne esistono diversi che hanno lavorato con gli stessi elementi, con notevole successo. La questione, allora, riguarda nella stessa misura sceneggiatori, produttori, attori e regista.

Detto ciò, non si può non rilevare che per chi conosce, e magari ne è un buon appassionato, la serie con Gabriel Byrne, l’effetto cortocircuito del deja vu è difficilmente evitabile. Tuttavia la serie di Sky sembra reggere il confronto senza uscirne particolarmente ammaccata. La regia di Saverio Costanzo ricalca i precedenti, alterna campi e controcampi, si sofferma sui primi piani. La macchina da presa è discreta, gli attori sono i veri protagonisti. Il cast è stellare: Sergio Castellitto (Giovanni Mari, lo psicologo), Kasia Smutniak (la paziente invaghita del terapeuta), Guido Caprino (il carabiniere in crisi di coscienza, che sostituisce il generale americano della serie statunitense), Barbora Bobulova e Adriano Giannini (la coppia in crisi), Irene Casagrande (l’adolescente in difficoltà), Licia Maglietta (la supervisora di Giovanni). Non sempre gli attori, tuttavia, sostengono il confronto con i loro cloni statunitensi: la Casagrande è lontana anni luce da Mia Wasikowska e Licia Maglietta rimane fin troppo schiava del personaggio di Diane West. Gli episodi del venerdì ci sembrano quelli più deboli e qui e là si percepiscono lievi forzature. Nonostante ciò ci pare che la serie riesca ad evitare la gran parte dei pericoli insiti in una forma seriale così particolare e, almeno sulla carta, così predisposta ad accogliere ed enfatizzare i difetti della stragrande maggioranza dei prodotti per la tv italiana. In questo senso, probabilmente, la produzione targata Wildside e Sky e la direzione di Costanzo hanno evitato che In Treatment diventasse in Italia la solita fiction di interni e dialoghi a cui siamo abituati dalle produzioni generaliste.


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