Tele Remake – Post Mortem

Si sa come i primi germi della cosiddetta ’globalizzazione’ risalgano a secoli e secoli fa. E si sa anche come proprio la nostra Italia sia uno dei Paesi che ancora oggi si mostra più refrattario, per quanto possibile, a un processo che sembra inarrestabile e che – per lo meno sulla carta - è sinonimo di ’evoluzione’. I motivi di tale ritrosia potrebbero ricercarsi in una cultura che da tempo immemore unisce la penisola e che su di essa si è sedimentata (compresa magari una possibile memoria collettiva delle varie dominazioni che hanno accompagnato la storia patria) divenendo causa di quella autarchia che è un misto di odio e amore, di diffidenza e fascinazione verso l’esterno, fino alla paura nei confronti dello straniero.
Fatto è che la penisola sembra sempre più avviarsi verso i margini della cultura globale. E dell’economia che le è indissolubilmente legata. Compreso l’intrattenimento cine-televisivo, il quale ha contribuito a creare quello scambio di beni, idee e persone che ha ben anticipato la globalizzazione, come viene oggi modernamente intesa: ossia opere create da elite culturali per masse sterminate che travalicano i confini nazionali.
E se quanto asserito potesse contare su di un briciolo di fondatezza, da noi difficilmente si potrà vedere - almeno in tempi brevi - qualcosa di simile al tedesco Post Mortem, sorta di inventivo (?) copia-e-incolla di quel capolavoro chiamato CSI (senza dimenticare Bones) ed esperimento che può essere colto sia con un certo interesse che, allo stesso tempo, con un insondabile fastidio. Tanto che potrebbe far discutere a lungo sulla sua utilità, al di là del mero discorso economico.
Perché Post Mortem, trasmesso dalla ’RTL’, in patria ha incontrato un successo senza eguali. E forse ha anche tolto un po’ della patina che si era posata sul serial poliziesco teutonico da esportazione, che finora era apparso incapace di rinnovarsi dopo i fasti lontani de L’ispettore Derrick. Ma, più che per le sue caratteristiche intrinseche, Post Mortem può essere letto grazie alle differenze e alle similitudini che lo legano all’illustre predecessore ambientato nel deserto del Nevada. Perché, come ben sanno i tecnocrati della globalizzazione e i manager delle multinazionali, un qualsiasi prodotto (un format, nella fattispecie), per sfondare in un mercato estero, deve comunque andare incontro alla domanda che vuole conquistare: deve, insomma, adattarsi a quest’ultima. Si tratta di quel misto di globalizzazione e localizzazione che va sotto il nome di ’Glocalizzazione’.
E C.S.I. è oramai diventato un vero e proprio format. Tanto che, da quella città in mezzo al nulla che è Las Vegas, sono nati degli spin-off ambientati a Miami e New York, metropoli multiculturali e crocevia della globalizzazione: ma, a dir la verità, perdendo lungo il tragitto molto del fascino iniziale. Dall’America è giunto quasi per errore a Parma (gli ignobili R.I.S. che non hanno di certo aiutato la già decrepita fiction italiana generalista) per approdare, poi, nel cuore dell’Europa: a Colonia, per la precisione. Qui, nell’Istituto di Medicina Legale, lavora l’anatomopatologo Daniel Koch (Hannes Jaenicke), alla guida di un’equipe formata da altri quattro specialisti, e in stretta collaborazione con l’Ispettore capo Brandt.
Però nulla potrebbe farci pensare di trovarci nella città renana. Anzi, quasi non si penserebbe di essere in Germania, se di tanto in tanto non facesse capolino la scritta ’Polizei’. E tutto ciò che di bello immaginiamo possa dar lustro a Colonia, tutto quello che potrebbe esserci servito su di un vassoio d’argento, ci è stato negato: perché, mentre dell’America viene sottolineato lo spazio e il vuoto nel quale si dibattono corpi e anime, qui tutto diviene più ristretto, forse anche più misero, costringendo il quadro a muoversi in maniera diversa. Perché se lì la camera si fa notare più che altro per la sua lentezza e leggerezza, qui tutto è preso in un vortice spasmodico che, però, non inebria del tutto. Mentre lì si predilige il pensiero e gli effetti che esso può avere, qui si vuol sottolineare l’azione stessa del pensare che diviene turbinio. Da una parte vi è un fluire libero, ma calmo e controllato; dall’altra il caos, ben rappresentato da una camera che, costretta il più delle volte nella cattività di luoghi chiusi e angusti, deve muoversi a cercare l’oggetto del desiderio, che spesso è un volto: per cui si susseguono continuamente panoramiche libere, zoomate in avanti e indietro e aggiustamenti dell’inquadratura, quasi a voler sottolineare la presenza di una autorialità che, tuttavia, non si è resa realmente visibile ai nostri occhi.
Esiste, soprattutto, una profonda differenza nel tono generale, visto che nel C.S.I. - Las Vegas è presente una certa ironia che stempera la malinconia sull’ineluttabilità della Fine; qui, invece, viene a mancare proprio l’aspetto dello humour nero, forse proprio per colpa di quella velocità di esecuzione messa prima in evidenza, che non lascia troppo tempo né per meditare, né per sorridere. E diverso è anche l’approccio mostrato verso i corpi inanimati che rappresentano la traccia più evidente degli omicidi: lì grazie al digitale si può esplorare qualsiasi loro anfratto, lasciandoci vedere quello che può essere solo immaginato; qui, invece, si ha un’assenza di tali acrobazie visuali, mentre si sente maggiormente una ’artigianalità’ che sottolinea ancor più la materialità del corpo. E non che è che Post Mortem non possa contare su capitali anche ingenti, visto che nella produzione figura la ’Sony’. Ma, di sicuro, ciò che più ha soddisfatto è l’attenzione che è stata profusa nella cura dell’aspetto formale e visivo. Mentre la coesione all’interno del cast sembra crescere col passare degli episodi, così come l’interesse suscitato dai personaggi.
Ma cosa c’è in Post Mortem di quello che potremmo considerare come puramente ’tedesco’? Forse quell’asprezza pudica che, già presente in C.S.I., ha trovato un terreno ancora più fertile nella Germania di Derrick. Mentre da noi la tv tende ad appianare qualsiasi asperità.
Per tornare all’Italia, si può affermare che di certo l’immediato futuro pone delle sfide che il nostro Paese non sembra ancora voler cogliere. In proposito si potrebbe citare la chiusura di un vecchio articolo di Mario Pirani (La nuova invasione degli ultracorpi, pubblicato su ’La Repubblica’ del 28 febbraio 2000), sui problemi, anche drammatici, legati alla globalizzazione: perché «[...] l’unica risposta sta nell’accettare la sfida e correre in avanti, non nel tornare indietro». Tutto sta a vedere cosa significhi, nello specifico qui dibattuto, ’correre in avanti’: seguire l’esempio tedesco?
Certamente sarebbe un buon inizio abbattere quei muri ideologici che ormai appaiono più alti delle vette alpine e più impervi del Mediterraneo, così da permettere a idee, persone e capitali stranieri di fare il loro ingresso nel nostro Paese (con talune avvisaglie targate ’Sky’, anche se si tratta di casi isolati rispetto al regno dell’imperante duopolio), al fine di creare sinergie che permettano finalmente di abbandonare quell’autarchia che rappresenta una palla al piede per lo Stivale. Ma la situazione odierna neanche invita a sperare in un futuro meno fosco.
