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Televisionarietà – Dollhouse

Pubblicato il 30 settembre 2009 da Marco Di Cesare


Televisionarietà – Dollhouse

Rappresenta il dominio della mente sul corpo e i dolori che entrambi possono provare, l’ultima creatura di Joss Whedon: la sua Casa di bambola è la messa in scena di una società, o almeno di una sua parte, che svuota gli individui delle loro facoltà e li riempie di volta in volta di nuova linfa, una vitalità forzosa che sarà instillata dal più forte perché lo schiavo sia ancora più servo.

È questo il basso continuo delle vicende che vedono come protagonista Caroline (Eliza Dushku), che perderà il suo stesso nome fino a diventare Echo, dopo essere stata convinta ad accettare di divenire una ’Attiva’ al servizio della Dollhouse, un’organizzazione che le cancellerà i ricordi per sostituirli con altri creati in laboratorio. Questo trattamento sarà necessario affinché la ragazza e le altre ’doll’ (sia uomini che donne) possano portare a termine i lavori commissionati dai clienti dell’azienda, magnati che richiedono prestazioni di vario genere (dal desiderio di avere un po’ di compagnia oppure di ritrovare la propria figlioletta rapita ad affari molto loschi). Incarichi tutti che esigono professionalità di alto livello, le migliori sul mercato: qual è, allora, una mossa più felice dell’inventare di sana pianta ricordi e conoscenze da innestare dentro una mente, convincendola di possedere le capacità e il bagaglio di esperienza necessari per portare a termine il compito assegnato? Ricordi prefabbricati, basati su reali psicologie, che il soggetto crederà appartenergli da sempre, traccia che potrà essere azzerata dopo che la missione è terminata, incontrando così il miracolo di riacquistare ogni volta la propria verginità: ossia la cosiddetta ’tabula rasa’, lo stato di quiete durante il quale le doll diventano vulnerabili e innocenti come bambini. È una nascita, la quale ha di certo bisogno di un ambiente sicuro, tranquillo e ovattato: come una casa per le bambole, corpi vuoti da riempire delle altrui aspettative.

Vi è qualcosa di Ibsen e molto di Blade Runner in quest’opera che, dopo un esordio zoppicante, riesce a motivare la propria esistenza in modo convincente. Anche perché l’intero progetto verte proprio sul senso da dare al proprio esistere, in un ambiente dove ciò che conta sono la messinscena e il recitare a seconda di quello che conviene agli altri. E l’ambientazione è la stessa dell’immortale opera che Ridley Scott ha tratto da Philip K. Dick: Los Angeles, la città che lì rappresentava il caos decadente e la sporcizia del nuovo millennio prossimo venturo, qui è un futuro divenuto attuale, nonostante sia uno sfondo sì mentale, ma fisicamente meno presente che nella celebre pellicola, tanto da intravedersi in qualche dialogo, come se fosse ripresa attraverso degli scorci. E così, come le prime parole nel film di Scott rappresentano uno scambio di vedute tra l’umano e il (non) umano, qui l’apertura è affidata a un colloquio tra Adelle DeWitt (Olivia Williams), autorità della Dollhouse, e Caroline: lì due esseri sistemati ai lati opposti di un lungo tavolo rettangolare, per esplicitare una lontananza che scopriremo non essere così distante, mentre qui altri due esseri, vicini, ai bordi di una piccola tavola rotonda, come a sottolineare lo schema circolare della comunicazione. Una comunicazione che, però, suona incredibilmente falsa, come il dialogo che si instaura tra il gatto e il topo. E il topolino vedrà segnato l’inizio della sua nuova vita quando firmerà un accordo della durata di cinque anni: ma è vita questa, potrà mai esserlo, come già tempo prima i replicanti di Blade Runner si erano domandati?
E la ragnatela che avviluppa il soggetto più o meno umano è talmente forte che nei primi episodi di Dollhouse è ribadito il ricorso all’elemento strutturale della circolarità e della ripetizione: perché Echo è rinchiusa nel ruolo che le è stato assegnato, una missione che troverà degli ostacoli prima di essere portata a compimento, come in qualsiasi trama noir. Ma presto lei farà nascere una sorta di dubbio negli umani (?) che la guidano, a causa di quella che la dottoressa Claire Saunders (in 1.2, Il bersaglio) considera una capacità di valutare oltre gli schemi - di pensare, dunque - come confiderà al ’Guardiano’ di Echo, Boyd Langton, aggiungendo che tale peculiarità alla Dollhouse è tutt’altro che positiva, dal momento che, a volte, essere nella norma è la cosa migliore. E nell’episodio 1.4, In trappola, Topher Brink, il giovane che programma i pensieri delle doll, noterà che Echo e due suoi compagni, Sierra e Victor, hanno cominciato a mangiare sempre allo stesso tavolo, sempre loro tre; in un dialogo nel quale il suo cinismo si scontrerà con l’empatia di Langton (sentimento probabilmente legato al procedimento di imprinting che lo ha visto partecipare al trattamento di Echo) sentiremo queste parole: «Stanno pranzando insieme. Sempre loro tre. E sempre allo stesso tavolo. Si raggruppano». «Si ricordano l’uno dell’altro?». «No, no, no. Ho azzerato i ricordi, è qualcosa di più profondo della memoria: un comportamento istintivo... il branco [...] si comportano come bisonti». «Non sono nati così». «Si sono offerti volontari». «Così ci hanno detto...».

Il dubbio, quindi, può introdursi nella testa di alcuni, così come il mistero circonda la figura di Alpha, un Attivo che è fuggito dalla gabbia uccidendo molte doll, ma risparmiando Echo. Ci troviamo perciò di fronte a una matassa che si dipana lentamente, a una narrazione che va di pari passo con una presa di coscienza che rappresenta una nuova rinascita, quella dell’individualità, che probabilmente indurrà a cercare una linea che sia la più dritta possibile, essendo questa la più utile per indicare la direzione di una fuga. E bisogna sottolineare come Joss Whedon, creatore di Buffy, abbia scelto una donna come protagonista della serie: Echo inizialmente è ritenuta idonea solo per incarichi sentimentali e romantici, ma il destino la coinvolgerà in missioni pericolose (in 1.2 un week-end d’amore si trasformerà in una spietata e sadica caccia alla donna); da ciò risulterà una figura forte che potrà rivelarsi insospettabilmente debole, una volta che la tecnologia verrà utilizzata per scoprire l’inganno e non per crearlo, come in 1.4. Tuttavia potrà essere lei, alla maniera del Neo di Matrix, l’individuo capace di liberare se stesso e portare la buona novella a una umanità repressa e prigioniera di un mondo che è diventato un simulacro.
E, in attesa di quel giorno, inconsapevole potrà nuotare come sempre nella piscina della Dollhouse, come una bambina immergendosi nell’acqua che è liquido intrauterino, lasciandosi cullare come un essere che aspetta di rinascere, per un’ultima volta magari, per poter così diventare finalmente adulto.


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