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TFF 2010 - Saverio Costanzo e L’angelo sterminatore - Figli e amanti

Pubblicato il 6 dicembre 2010 da Sofia Bonicalzi


TFF 2010 - Saverio Costanzo e L'angelo sterminatore - Figli e amanti

L’anarchismo trionfante di Luis Buñuel in un film ossimorico fin dal titolo, che mette alla berlina con lucida e distruttiva capacità di penetrazione i miti e i riti di una borghesia in via di disfacimento, ma inesorabilmente incapace di rigenerarsi, se non rinvenendo in un’altra messinscena una forzosa e labile via d’uscita.

Saverio Costanzo (regista di Private, In memoria di me, La solitudine dei numeri primi) invitato a scegliere il film della sua vocazione artistica per le giornate di ‘Figli e amanti’ al festival del cinema di Torino, accompagnato da Roberto Nepoti e Emanuela Martini, porta con sé L’angelo sterminatore, una delle pellicole meno velatamente anti-borghesi del regista spagnolo.

Dopo una prima a teatro un gruppo di facoltosi messicani, legati l’uno all’altro da una rete di ipocrisia e cordialità fasulla, si danno appuntamento per una fastosa cena a casa di Edmondo e Lucia Nobile, in calle Providencia. Fin dall’inizio qualcosa si interrompe nel meccanismo fluido dei rapporti gerarchici e dei comportamenti codificati, quando uno dopo l’altro i domestici, senza un motivo apparente, abbandonano la dimora, come topi prima di un naufragio. Durante la cena piccoli colpi di martello fanno scricchiolare convenzioni apparentemente granitiche, senza che nessuno si prenda la responsabilità di darvi troppo peso (Leonora dichiara il suo amore per il medico e lo bacia appassionatamente, Leticia getta un posacenere contro un vetro), mentre la musica e il tempo corrono veloci verso l’alba. Quando tutti vorrebbero fare ritorno alle proprie case, ognuno dei presenti, in modo del tutto indipendente, pare avvinto da una forza irresistibile che lo costringe a rimandare la partenza e infine a restare, accampato nel ricco salotto dei propri anfitrioni. Per tutto il resto del film lo spettatore, sbagliando, non farà altro che chiedersi per quale motivo nessuno dei personaggi è in grado di varcare la soglia della casa-zattera, mentre la medesima impotenza sembra essersi impadronita di coloro che ancora abitano nel mondo e che non riescono a entrare in contatto con gli ospiti-naufraghi. Buñuel, adattando una pièce di José Bergamin (Los Naufragos de la calle Providencia; il titolo del film deriva invece da un progetto mai portato a termine dello stesso autore, El angel exterminador) non offre significati a buon mercato, né spiegazioni che facciano quadrare il cerchio e riavvolgano il mistero, perché «se il film che state per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita e, come essa, soggetto a molte interpretazioni», come recita la didascalia introduttiva, che fa del surrealismo l’unico possibile realismo.

L’angelo sterminatore non si colora di quell’ironia sorridente che sarà propria del Fascino discreto della borghesia (1972): i diversi personaggi, che all’inizio paiono danzare sopra un abisso (un po’ come gli ospiti della Regola del gioco di Jean Renoir), lasciati a se stessi e alla loro convivenza forzata, scivolano in uno stato pre-umano di sporcizia e violenza (Nel 1961 Buñuel aveva girato Viridiana, con la celebre scena dell’orgia dei poveri nella casa borghese dello zio).

Alla fine, solo rimettendo in scena l’origine del dramma, rifugiandosi in un rituale recuperato frammento dopo frammento, si potrà ristabilire, almeno apparentemente, il contatto con il mondo. Liberati dalla surreale prigionia tutti correranno in Chiesa ma, in un finale quanto mai circolare, apocalittico e beffardo, ogni certezza verrà rimessa in discussione. C’è qualcosa di inafferrabile nell’affinità elettiva che lega Saverio Costanzo, regista di solitudini rigorose, ad uno dei capolavori del cinema surrealista ed onirico, girato da Buñuel in Messico per aggirare le severe restrizioni della censura franchista. Come piacerebbe al regista spagnolo, Costanzo non cerca significati o legami che possano essere codificati da un punto di vista tematico e stilistico, ma si affida alla suggestione di un’opera capace di vincere la necessità, propria del cinema (e dell’arte in genere) contemporanea, di spiegarsi in fretta, di darsi completamente, riducendosi a didascalia di se stessa, scambiando l’immediatezza con la profondità.

L’angelo sterminatore è punteggiato di invenzioni che non vogliono spiegazioni, di piccoli episodi che accadono e basta, al contempo contribuendo a costruire un’atmosfera surreale e morbosa (i riferimenti ai capelli che cadono, l’incubo notturno con la mano che tenta di strangolare la donna addormentata, l’orso che circola per la casa). Se l’immaginario surreale e fantastico appare comunque lontano, il regista romano recupera la riflessione buñueliana sulla casa come perimetro di mondo nel claustrofobico Private, dove la camera a mano materializza l’angoscia della coabitazione forzata nell’alloggio palestinese occupato da militari israeliani. Lo spazio chiuso, stavolta come luogo di autoesclusione dal mondo, è anche il convento dove si rifugia Andrea, il giovane protagonista di In memoria di me, impegnato in una ricerca di senso che non ha bisogno dei clamori della realtà esterna. Così nell’ultimo film di Costanzo, La solitudine dei numeri primi, Mattia e Alice sono prigionieri di un’insostenibile pesantezza dell’essere che non viene mai svelata fino in fondo, di una chiusura esistenziale, e non più spaziale, che non permette loro di incontrarsi davvero, come numeri primi gemelli, così vicini che parrebbero quasi sfiorarsi, ma inevitabilmente incapaci di colmare la pur breve distanza che li separa.


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