The company

Raccontare la danza è una delle sfide più grandi che il cinema ha, sia pur sporadicamente, coltivato nel corso della sua ormai centenaria esistenza. La costante sfida alle leggi della gravità portata avanti in qualsiasi balletto come pure la forza con cui il corpo umano vi viene deformato, alterato, ricondotto ad una dimensione “altra” sono elementi che certo non potevano lasciare indifferente una forma di espressione come il cinema che di simili suggestioni si è sempre nutrito. Eppure, di fronte alla sfida di trasferire il movimento sinuoso dei corpi e della musica sul marmo della celluloide, il cinema ha dovuto sempre dichiararsi sconfitto riconoscendo come il linguaggio evenemenziale del corpo danzante poco riesca a sposarsi con le logiche di un film che si vuole comunque commerciale e d’intrattenimento. L’incontro tra Cinema e Danza si è, quindi, sempre risolto in opere bifronte in cui il realismo dell’apparato della messa in scena filmica non poteva non entrare in urto necessario con l’assoluta astrazione del balletto. Ne venivano fuori delle opere a loro modo oscillanti che si limitavano ad inserire vari numeri di danza all’interno di una storia fortemente connotata di realismo (si pensi, escludendo a priori il caso dei Musicals che meriterebbero, comunque un discorso a parte, a film come Scarpette rosse o, scendendo verso il peggio, a Flashdance). Da questo punto di vista, The company è il primo film che ambisce ad eleggere come vera ed unica protagonista la danza. Non la storia, quindi, di semplici ballerini ossessionati dal desiderio di sfondare, ma la Danza come movimento, come respiro, come fenomeno commerciale ed artistico, come linguaggio. E per arrivare a questo Altman è naturalmente costretto a destrutturare il racconto a trasformare le potenziali strutture narrative in discrete parentesi poste tra un numero di ballo e il successivo. Da questa premessa deriva una messa in scena particolarmente originale che ha l’indubbio pregio di trasformare tutti i luoghi comuni di una storia abbondantemente stereotipata in meri accidenti fenomenologici che sembrano non avere nessunissima importanza ai fini del discorso poetico messo in atto. La storia di Ry (Neve Campbell: eccellente) che, sorpreso il fidanzato con un’altra, continua ad impegnarsi a fondo nella danza, trova un nuovo amore (James Franco) e, alla fine, ha un incidente proprio nel momento culminante dello spettacolo più impegnativo della stagione (elementi classici, lo si vede, per un potenziale film sospiroso alla A time for dancing) viene trattata, dal regista, come fosse un mero episodio di contorno. Allo stesso modo la storia di Justin (David Gombert) rifiutato da tutti i membri del corpo di ballo e considerato alla stregua di un ingombrante corpo estraneo, pur presentandosi come possibile materia di racconto resta del tutto marginale ai fini dell’impostazione globale della pellicola. Altman, insomma, compone una libera improvvisazione su possibili temi (ausiliato tra l’altro da una sceneggiatura assai vicina ai suoi gusti) per film tradizionali e riconduce il tutto ad una dichiarazione d’amore per la bellezza della danza. Nel far questo si avvale di coreografie straordinarie e inventa almeno una sequenza assolutamente memorabile: il primo balletto all’aperto di Ry reso indimenticabile da un improvviso temporale notturno che si impone come terzo protagonista di un pas de double (Altman celebra qui l’evenemenzialità dello spettacolo teatrale, ma lo fa con i mezzi propri del cinema creando un temporale tanto brechtianamente finto quanto incantevole). Resta il dubbio se questa decostruzione del racconto riesca a produrre un autentico capolavoro. Si ha spesso, infatti, durante la visione del film, l’impressione che il pur ammirevole meccanismo messo in moto da Altman sia più gratuito che veramente necessario. Forse Altman ha davvero esaurito il proprio discorso poetico per raggiungere le soglie di un dorato quanto inerte manierismo (e sono in molti ad affermarlo da tempo) o forse il suo modo di concepire il cinema ha raggiunto vette ancora precluse alla maggior parte dei contemporanei. E anche se delle due ipotesi ci sembra più credibile la prima, ci piace sperare, per l’autore di Nashville e di Mash, nella seconda.
(The company); Regia: Robert Altman; sceneggiatura: Barbara Turner; soggetto: Neve Campbell, Barbara Turner; fotografia: Andrew Dunn (B.S.C.); montaggio: Geraldine Peroni; musica: Van Dyke Parks; interpreti: Neve Campbell, Malcolm MaDowell, James Franco, Jeoffrey Ballett di Chicago; produzione: Killer films, Capitol films; distribuzione: Medusa
[marzo 2004]
