The day after tomorrow

The day after tomorrow ha tutti i pregi e tutti i difetti di una classica operazione alla Emmerich. Come Godzilla è un film palesemente affetto da una sorta di sindrome da gigantismo per cui la vastità dell’affresco (pur all’interno di una narrazione sostanzialmente americana che ammette solo di sfuggita brevi parentesi inglesi o giapponesi) conta più delle singole parti che vanno a comporlo. Come Indipendece day è una sfida alle possibilità della rappresentazione di uno scenario apocalittico vinta grazie alle sempre più mature conquiste dell’industria degli effetti speciali. Come Il patriota nasconde dietro le maglie di un discorso anche larvatamente auto critico (qui una riflessione quanto mai condivisibile sulla “non politica” ecologica statunitense) una celebrazione delle virtù dell’eroe americano tipico e della sua capacità di far fronte a tutte le avversità e riuscire in qualche modo sempre e comunque vincitore. Quello che stupisce in The day after tomorrow è semmai la sua dimensione ambigua, la sua definizione stranamente liminale tra le derive del cinema di puro intrattenimento edificante e la volontà di riproporre allo spettatore un discorso non necessariamente banale su alcuni aspetti della realtà contemporanea. Una scelta strana, questa, da parte di un regista che, pur toccando temi forti e pur affrontando periodi storici delicati e oggetto di forte discussione (la guerra di secessione americana tanto per fare un esempio) ha sempre finito con l’assorbirli in una compassata lezione spettacolare in cui era il puro e semplice impatto visivo a contare più di qualsiasi altra cosa. In questo modo il discorso risultava privato di qualsiasi forma di dialettica e le poche ambizioni contenutistiche finivano per ridursi al rango di meri enunciati imposti allo spettatore con la forza bruta di un immaginario tanto gigantesco quanto apparentemente incontrovertibile. Se un’opera crea sempre il proprio spettatore modello, è da dire che i film di Emmerich hanno sempre aspirato ad uno spettatore totalmente passivo, un individuo profondamente massificato la cui unica ambizione sembrerebbe essere quella di farsi soffocare dallo stupore per la maestosità visiva messa platealmente in campo fino a perdere di vista ogni rapporto con il mondo circostante. Di qui quel non so che di generico che emergeva dalla visione di ogni pellicola del pur talentuoso regista, quel sentimento di stordimento che coglieva gli occhi senza riuscire ad arrivare mai davvero alla mente. Con The day after tomorrow il discorso si fa, dicevamo, più ambiguo e non perché il regista si dimostri particolarmente incline a centrare il proprio discorso sul contenuto a scapito della dimensione spettacolare, ma perché ci pare che questa volta il discorso messo in campo (in primis una certa critica al sistema politico americano che ha condotto alla non adesione al trattato di Kyoto) urti necessariamente con i mezzi con cui questa riflessione viene comunicata al proprio pubblico. Senza voler estremizzare i limiti di un discorso che resta sempre filo americano nell’anima, ci pare che questa volta Emmerich utilizzi gli strumenti privilegiati della cultura americana (che come ci insegna Moore è una cultura della Paura che si nutre di catastrofi per impedire all’elettorato ogni forma di riflessione) per criticare quella stessa cultura di cui è diretto esponente. Un po’ come la persona che sputa nel piatto in cui mangia, il regista spaventa, come da copione, ma poi inserisce nel tessuto narrativo brevi sketch che ribaltano il senso stesso di alcuni dei miti della cultura americana. In questo modo il pragmatismo politico da sempre lodato come virtù (quello che ha condotto all’elezione di Bush) diventa allora fonte immediata della catastrofe (fino all’assurdo mea culpa finale abbondantemente stemperato dal sollievo per i superstiti). E ancora: la paura costante dell’invasione del sacro suolo americano da parte di orde di invasori extra comunitari viene irrisa quando vediamo gli americani attraversare i confini con il Messico in cerca di salvezza dall’immensa catastrofe climatica. A ben vedere un discorso analogo era già stato portato avanti in Godzilla, ma in quel film la componente cinefila e ludica finiva per prendere il sopravvento su un sottotesto appena enunciato nel prologo e poi presto dimenticato. Qui, invece, malgrado la maggiore ampiezza dell’affresco solo un po’ appesantito da alcune parentesi familiari francamente fuori registro (ma, del resto, Emmerich ha sempre gestito molto male il versante sentimentale del racconto) si ha l’impressione che la volontà critica sia un po’ più che sporadica. Forse che anche nella coscienza americana sia stia facendo strada l’idea che ogni scelta politica può avere ripercussioni globali? Magari non è troppo sperarlo!
(The day after tomorrow); regia: Roland Emmerich; sceneggiatura: Roland Emmerich, Jeffrey Nachmanoff; fotografia: Ueli Steiger; montaggio: David Brenner; musica: Harald Kloser; interpreti: Dennis Quaid, Jake Gyllenhaal, Emmy Rossum, Dask Mihok; produzione: Roland Emmerich, Mark Gordon; distribuzione: 20th Century Fox
[maggio 2004]
