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The fog - Nebbia assassina

Pubblicato il 21 aprile 2006 da Alessandro Izzi


The fog - Nebbia assassina

Deve esserci sicuramente, in quel di Hollywood, custodito gelosamente dai vari studios che se lo dividono con comunitario spirito religioso, un volumetto nero che è diventato ormai proverbiale.
Tratta, il libello, di come prendere, a fini prettamente commerciali, un horror del passato (meglio se un classico dei gloriosi anni ’70) per poi svuotarlo di ogni qualsivoglia carica eversiva, di ogni minima parvenza politica fino a ridurlo al rango di garbato spettacolo macina popcorn.
La ridda di invasioni di remake di classici del cinema horror (non ultimo il di là a venire Le colline hanno gli occhi recuperato da una sceneggiatura malata di Wes Craven) viene tutta da queste pagine scriteriate. E fa una tristezza infame vedere come quello che fino a poco tempo fa era lo specchio nero delle nostre nere coscienze borghesi sia ora ridotto a gioco adolescenziale il cui unico scopo è anestetizzare le masse, riconducendole alle dorate soglie di un sonno definitivamente senza sogni e, quindi, anche senza veri incubi.
Da questi remake tutti uguali di film sempre diversi (e The fog è solo un’estrema propaggine e non delle peggiori del fenomeno), comunque, non si evince solo la mera vocazione merceologica di chi vuole sfruttare un genere di facile consumo fino a poco tempo fa relegato ai circuiti undergorund. Nella miriade di goccioline che compongono la produzione horror degli ultimi anni, si compone, infatti, il disegno, l’affresco quasi, di una società davvero dominata, a livelli profondi, da un disperato sentimento di paura. Le platee (non solo quelle americane) sono pervase da un senso di sottile e persistente angoscia, sono tenute sotto la cappa di un clima di imperante ed onnipervasiva minaccia e il loro unico desiderio, nel recarsi al cinema, è quello di trovarsi di fronte ad un qualcosa che possa aiutarli a sciogliere, sia pure per un breve momento, questo senso di orrore incombente ed apparentemente ineludibile.
E cosa può esserci di meglio, in questo senso, di un salutare sobbalzo da una poltrona durante una visione cinematografica? Una paura piccola, insomma, che possa, con la ben nota teoria del chiodo schiaccia chiodo, sia pur di poco, farci dimenticare che le cose che dovrebbero farci paura sono ben altre da quel gioco di luci e di ombre che corrono sulle schermo magari calibrate da un senso grafico invidiabile, ma, al fondo, innocuo.
Per questo l’horror contemporaneo (quando non è giapponese) è, se messo a confronto con i modelli insuperabili degli anni passati, assolutamente istintivo e privo di ogni torbidezza concettuale. Se i grandi horror del passato, pur passando per sottili paure individuali finivano, comunque, per andare a toccare, con dente avvelenato, quelle che erano le grandi paure sociali del tempo, l’horror contemporaneo si chiude viceversa nella panacea di piccoli brividi buoni per tutte le stagioni. L’incredibile è che questo meccanismo di riduzione e appiattimento riesce ad agire anche nei confronti di testi, che fin dall’idea di base, parevano del tutto refrattari ad esso.
È proprio il caso di The fog che, tratto da un’interessantissima sceneggiatura di John Carpenter e Debra Hill, è fin dalle sue origini (trattasi di una storia di fantasmi che invadono, dal mare, una comunità maledetta di pescatori) più orientato verso un discorso sociale che non individuale.
Il film di Carpenter è, infatti, la storia di una vendetta che si abbatte su un mondo intero, che passa per le strade di una riconoscibile cittadina (presto metafora dell’America tutta) con ali di morte e paura. Ma soprattutto è il ritratto del senso di angoscia di una società ben consapevole di aver costruito la sua fortuna sul sopruso e sulla violenza e che teme necessariamente che, presto o tardi, qualcuno possa venire a presentare il conto di tante malefatte. Carpenter, regista di western sempre mascherati da altro, rincorre un discorso atavico in cui le responsabilità individuali diventano collettive quando la comunità finge di ignorare, per quieto vivere, l’orrore su cui si è scientemente costruita. La nebbia, con le sue volute fumose (i vecchi effetti speciali le davano una consistenza atroce ed inquietante del tutto persa nelle spire create oggi con il computer) minaccia l’intera comunità, colpisce tutti (anche se i morti erano pochi e non una goccia di sangue scorreva), si infiltra tra le case, battendo sulle porte come una piaga biblica popolata da mostri uncino muniti e senza volto. L’orrore collettivo diventa presto discorso politico ben sorretto dalla scabra, lineare messa in scena carpenteriana. Il tutto per andare a comporre la storia di una vendetta cieca che colpisce anche i malcapitati stranieri (l’autostoppista del tutto estranea alla comunità) che si consuma in nome di un crimine che non ci era neanche dato di vedere.
Il regista di questo piatto remake, ben preoccupato di dare nomi e volti all’orrore (privandolo con questo di ogni carica simbolica) gioca, invece di rimessa con la mente occupata dal solo pensiero di non far trapelare mai neanche l’odore di una responsabilità collettiva. Tutti i personaggi della storia si ritrovano di colpo imparentati gli uni agli altri e, per di più, anche con gli artefici del crimine che dà origine a tutto il racconto. La saga comunitaria di Carpenter si riduce a dramma familiare, a mero racconto gotico sublimato, per di più, anche da un matrimonio riparatore tra il fantasma vindice e la giovane pulzella di turno. Variazioni apparentemente minimali ribaltano completamente il senso del vecchio racconto come nel caso del personaggio di Stevie, proprietaria della radio cittadina (e si rimpiange la voce roca e suadente di Adrienne Barbeau) che, nella vecchia versione, restava incollata al suo posto nel tentativo di avvertire la popolazione dei movimenti della nebbia, mentre nella nuova, in pieno rispetto dello spirito familiarista della nuova america, si precipita a salvare il figlioletto fregandosene bellamente del resto della città in pericolo.
Ogni discorso si scioglie in una regia alla perenne ricerca dell’effetto, mentre si resta allibiti di fronte all’assoluta povertà del casting. Anche Tom Welling, il nome di punta per le giovani teen agers, dona la sua atletica prestanza ad un personaggio che resta fin troppo carateceo. Ci è troppo difficile, durante il film, prenderlo per quello che dovrebbe essere: un rude pescatore della profonda provincia americana.

[Aprile 2006]

(The fog); Regia: Rupert Wainwright; sceneggiatura: Cooper Layne; fotografia: Nathan Hope, Ian Seabrook; montaggio: Dennis Virkler; musiche: Graeme Revell; interpreti: Tom Welling (Nick Castle), Maggie Grace (Elizabeth Williams), Selma Blair (Stevie Wayne), DeRay Davis (Spooner), Kenneth Welsh (Tom Malone); Adrian Hough (Padre Malone), Sara Botsford (Kathy Williams); produzione: John Carpenter, Debra Hill, David Foster; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; Origine: USA, 2005; durata: 100’

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