The Grudge 2

Nel mare magnum della produzione seriale di remake di sequel The Grudge 2 occupa una posizione peculiare per certi versi accomunabile con quella di The ring 2 (versione americana) di Hideo Nakata.
In entrambi i casi è il regista della pellicola originale a prendere le redini del remake in terra americana; in entrambi i casi abbiamo a che fare con la scelta, nella composizione dell’inquadratura, di un classico formato panoramico che, rinunciando alle lusinghe a tutto schermo dello scope, ricerca, affinità compositive con l’iconografia giapponese.
In tutti e due i casi, infine, il grosso del lavoro di ricomposizione narrativa e riappropriazione di una storia già efficacemente narrata in altri contesti e a così breve distanza di tempo, passa, prima ancora che attraverso un serio ripensamento registico, attraverso abili strategie di riscrittura in sede di sceneggiatura.
La messa in immagine degli archetipi del genere, insomma, è data per scontata, la logica seriale si è a tal punto impadronita del meccanismo produttivo che la regia ha finito per diventare un elemento di certo fondante, ma meno importante di quanto non appaia a prima vista. Quello che conta nei remake in terra americana è, insomma, l’abilità combinatoria dello sceneggiatore, la sua capacità di ibridare, da fonti diverse, elementi eterogenei in modi sempre nuovi ed originali.
Nel caso del secondo capitolo di The Ring 2, Ehren Kruger ha lavorato su elementi che erano appena sfiorati nella meno complessa e più fantascientifica controparte giapponese. Dimenticando le riflessioni non accessorie sul rapporto tra mondo dei fantasmi e nuove tecnologie, che caratterizzavano la pellicola originale, Hideo Nakata aveva, così, avuto la possibilità, come regista, non solo di giocare con efficaci suggestioni desunte dal neogotico americano, ma anche di addentrarsi in una riflessione sul senso della maternità rinsaldando così un forte legame tra nuovo horror seriale ed antropologia.
The Grudge 2 muove, invece, su logiche diverse e punta su un tentativo non sempre perfettamente conseguito, di ricostruire il senso ultimo del modello giapponese innestandolo in un contesto culturale più strettamente e nettamente americano.
Da questo punto di vista la serie di The Ring non aveva offerto grandi resistenze al passaggio dal contesto nipponico a quello statunitense. La storia pura e semplice, immaginata per un pubblico orientale che ha un modo peculiare di concepire le proprie storie di fantasmi e di esistenze ultraterrene, resiste, nella sua purezza acrhetipale, sia nella realtà di Tokyo sia che in quella delle coste del New England. La limpidezza dell’assunto di base è sufficentemente universale da funzionare in qualsiasi contesto e da prestarsi a qualsiasi tipo di adattamento. E’ questo diventa ancor più evidente nel caso di The Ring (primo episodio) che, pur mantenendo inalterato nelle sue linee generali, il plot narrativo, invera però due pellicole di fatto molto diverse tra loro.
Il piccolo miracolo delle opere di Hideo Nakata non riesce a funzionare, però, per i gioiellini della produzione di Shimizu Takashi che risulta molto più ancorato, nell’impianto mitologico, con la realtà nipponica e ha, per questo, bisogno, prima ancora di un efficace lavoro di riscrittura, di un complesso lavoro di traduzione simbolica.
Per il primo episodio della serie (diretto sempre da Shimizu Takashi) si scelse la strada dell’adattamento semplificato. Pur mantenendo (come nel caso di The Ring) inalterata l’ossatura narrativa e i complessi incastri temporali dell’originale giapponese, il regista riadattò questi elementi alla realtà più strettamente statunitense.
Da una parte scelse, quindi, una realtà (quella degli americani in terra giapponese) più affine al gusto occidentale, dall’altra, abbandonò la struttura corale dell’originale (che non ammetteva un protagonista unico) per dare spazio ad un personaggio principale (la sempre efficace Sarah Michelle Gellar).
The Grudge 2 prosegue questo processo di immedesimazione nella cultura americana (che è quella ospitante) complicando le carte della logica seriale.
Tanto per cominciare la contiguità tra primo e secondo episodio diventa vincolante. The Grude 2 non è, come avviene per molti sequel, una replica del primo episodio rifatta ad anni di distanza con personaggi diversi, ma il seguito logico, lo sviluppo di quanto ancora incompiuto nell’episodio precedente.
Il racconto prende le mosse esattamente nel punto dove era stato lasciato alla fine del primo episodio e lo prosegue secondo i dettami della logica implacabile di una vendetta cieca e furiosa. Allo stesso tempo, però, seguendo un allargamento a macchia d’olio del percorso narrativo, la maledizione del fantasma Kajako si sposta dalla casa infestata, si libera nello spazio, varca l’oceano e sbarca proprio nel territorio americano.
Questo passaggio, però, per funzionare, sembra avere ancora bisogno di un vincolo, di un punto di passaggio, di un veicolo giapponese. Il trapianto nella nuova realtà riesce a funzionare solo se trasportato come un germe patogeno da un organismo (e da una concezione) che restano sul confine tra il mondo occidentale e quello orientale e questo perchè i fantasmi evocati dalla fervida macchina da presa di Shimizu Takashi rimangono troppo strettamente ancorati ad una dimensione giapponese.
Il fantasma, nella logica occidentale, infatti, è una figura evanescente che irrompe in maniera del tutto innaturale nella realtà quotidiana del nostro mondo. Esso è prima di tutto, Henry James docet, una figura emergente del nostro rimosso (individuale e collettivo) e come tale conserva sempre uno statuto assolutamente metafisico. Al contrario, nella logica orientale, il fantasma non è realtà metafisica, ma entità quasi fisica, affine e contigua al nostro mondo quotidiano. La sua più che un’irruzione è un’azione di possessione dello spazio, il fantasma non si limita ad apparire (per poi magari sparire), ma a dilagarsi nello spazio fino a riempire il corpo dell’intera inquadratura (splendidamente consapevole la scena più terribile del film: quella dell’ingresso di Kajako nello studio fotografico di Eason).
Questa realtà di fondo non può passare da un contesto culturale all’altro senza una mediazione che sia tanto narrativa quanto simbolica.
Il secondo The Grudge, comunque, non segna un passo avanti in questo processo di traduzione per il solo fatto che l’orrore sbarca definitivamente in terreno americano, ma anche perché la sua struttura narrativa si disarticola maggiormente dalle logiche del blockbuster americano.
Il regista riesce a ritrovare un andamento nuovamente corale, abbandona la preoccupazione di doversi ancorare al punto di vista di un protagonista assoluto e ritrova un intreccio temporale e spaziale dal sapore quasi sperimentale. Un passaggio riuscito se si considera che dei tre episodi che compongono il vasto affresco di The Grudge 2, a funzionare meglio è proprio quello americano in cui il rancore covato dietro le mura di una casa, trova poi, varcata la soglia, la terribile indifferenza delle metropoli popolose che neanche si accorgono di quanto avviene al loro interno.
Ma a vincere è soprattutto, all’interno di un film non sempre riuscito, è proprio la scelta di eleggere a nuovo protagonista lo sguardo innocente, ma ancora capace di credere all’impossibile di un bambino (un eccellente Matthew Knight).
[Novembre 2006]
(The Grudge 2); Regia: Shimizu Takashi; sceneggiatura: Takashi Shimizu, Stephen Susco; fotografia: Katsumi Yanagishima; montaggio: Jeff Betancourt; musica: Christopher Young; interpreti: Sarah Michelle Gellar (Karen Davis), Amber Tamblyn (Aubrey Davis), Arielle Kebbel (Allison), Matthew Knight (Jake), Jennifer Beals (Trish), Ryo Ishibashi (Nakagawa), Edison Chen (Eason), Joanna Cassidy (Mrs. Davis), Christopher Cousins (Bill), Jenna Dewan (Sally); produzione: Columbia Pictures Corporation, Ghost House Pictures, Mandate Pictures, Vertigo Entertainment; distribuzione: 01 distribution; origine: USA, 2006, durata: 95’; webinfo: Sito originale
