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The Host

Pubblicato il 31 marzo 2013 da Alessandro Izzi
VOTO:


The Host

Andrew Niccol è sempre stato un po’ come le anime che popolano i mondi di The Host: un viandante che entra nel chiuso di un genere cinematografico per modificarlo dall’interno. La sua azione non tocca le dinamiche narrative, ma le strutture profonde della narrazione stessa. Sulla superficie tutto rimane come era prima, all’interno le logiche sono spesso ribaltate, comunque soggette ad un pesante ripensamento.
Nell’isola di The Truman show (che di Niccol porta solo la firma alla sceneggiatura), ad esempio, lo sguardo superficiale ci mette di fronte ad un mondo quotidiano riconoscibile, ma basta appena allargare lo sguardo oltre i confini di un orizzonte di cartapesta per rendersi conto che quel mondo è, in realtà, niente più che un set popolato d’attori.
Il mondo di The Host, nel concreto, è lo stesso del film di Weir, ma è anche lo stesso di Gattaca. Lo guardi da fuori e ti stupisci nel ritrovarci le stesse cose che ci trovavi anche ieri. L’unica cosa che ti lascia perplesso è come tutto sia più pulito e regolare del solito: le strade camminano al ritmo imposto da un regista che governa ogni cosa con mano ferma che tiene in armonia quel che, lasciato al caso delle cure quotidiane, suonerebbe piuttosto discorde e un poco asimmetrico. Come in Gattaca, ti sorprende con una vertigine l’ascolto di un pianista che, per suonare meglio, si fa aggiungere un dito dai maghi della genetica. Il problema è che quel dito va aggiungere note a Schubert trasformando il romanticismo del sommo compositore tedesco in un virtuosismo strano che suona innaturale.
Tanto in The Host quanto in Gattaca la perfezione non è umana. Le strade in cui ogni autista rispetta il limite di velocità e su cui camminano solo persone sincere che dicono le cose come sono, non fanno parte del nostro DNA. Anzi, forse l’unica cosa che davvero ci rende uomini non è tanto il rincorrere la perfezione, quanto il nostro cercare l’oltre proprio attraverso l’imperfezione che ci è compagna di vita.
Le anime di The Host arrivano sul nostro pianeta come hanno fatto su almeno un’altra dozzina di mondi. Scendono come chimere di luce, ci entrano nel collo e negli occhi e prendono il nostro posto, coi nostri ricordi, le nostre emozioni e il dito in più del pianista di Gattaca. Il loro obiettivo non è la conquista di un mondo o di un corpo, ma il perfezionamento del mondo che li ospita più nolente che volente. Entrando nei nostri corpi, ci portano dentro i loro ricordi, la loro anima e il loro sguardo che passa per gli occhi, specchi opachi d’altrove.
La stessa cosa fa il regista che, demiurgo, entra nel genere del racconto di invasione e lo guida verso lidi più complessi. Il discorso si complica al di là dei ben noti problemi del cinema di anticipazione. La domanda più importante non è più se resta l’uomo dentro il guscio del corpo pilotato dall’anima venuta dallo spazio, ma il gioco speculare tra essere e apparire al di là dell’anima che crediamo di percepire e del corpo che tentiamo di vedere.
Truman nel vecchio film di Weir, in fondo è, ma il suo essere sta, fino ad un certo punto, nell’essere oggetto di visione, nel suo offrirsi, inconsapevole, allo sguardo di altri. La finzione non è tale se la percepiamo come verità. È questo anche il paradosso di S1mone.
The Host rilancia in chiave inedita il complesso di The Truman Show. Anche qui c’è un regista che muove il discorso al di sopra della volontà individuale. Anche qui il rapporto salta dal racconto alla metariflessione sui meccanismi che regolano la finzione. Ma anche qui il demiurgo controlla le cose per atto d’amore che si ribalta in ossessione. La ricerca è quella di un autore che vorrebbe, per la sua creatura, il migliore dei mondi. Ma l’esercizio del controllo non può non condurre alla ribellione e come in Gattaca l’umanità si misura nel desiderio del superamento dei confini e non nell’acquiescenza ad uno status quo che quanto più è perfetto tanto più ci somiglia alla morte.
Niccol così entra nei generi per farne specchio di se stesso e delle sue ossessioni che rimangono immutate di film in film e di mondo in mondo. il problema di The Host sta semmai nel fatto che la storia è esattamente come il corpo di Melanie: è popolato da due anime. La prima, quella fantascientifica, è dominata con la consueta cura formale, il secondo, quello del teen drama che viene dritto dritto dal romanzo di Stephanie Meyer che, dovunque vada, vede per "adolescenti innamorati anche di chi non dovrebbero" segna, uno dopo l’altro, tutti i passi falsi dell’operazione. Perché il duetto mentale tra anima e anima, mai del tutto funzionale, si invera spesso in piccoli siparietti di dubbio gusto al sapor di baci perugina.
In un certo senso Niccol è come il cercatore del film: popola un corpo, ma gli resta a fargli compagnia un’anima troppo forte e di relativamente dubbio gusto. E il film, che cita addirittura Wenders quando mette William Hurt a fare l’inventore nel deserto (siamo dalla parti di Fino alla fine del mondo, altro film che parla di visione), perde la bussola del pamphlet filosofico quando le due anime, per farsi dispetto reciproco, non trovano di meglio che baciare ragazzi diversi.


CAST & CREDITS

(The host); Regia e sceneggiatura: Andrew Niccol; fotografia: Roberto Schaefer; montaggio: Thomas J. Nordberg; musica: Antonio Pinto; interpreti: Saoirse Ronan, Diane Kruger, Max Irons, Jake Abel, William Hurt, Frances Fisher, Boyd Holbrook, Scott Lawrence, Chandler Canterbury, Raeden Greer; produzione: Nick Wechsler, Steve Schwartz , Paula Mae Schwartz; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2013; durata: 125’; webinfo: Sito Ufficiale


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