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THE ISLAND

Pubblicato il 16 agosto 2005 da Alessandro Izzi


THE ISLAND

La clonazione è un argomento spinoso, irto di contraddizioni interne spesso insolubili, difficile da trattare sia nel campo di eventuali tribune elettorali che, più modestamente nello spazio ristretto di una narrazione filmica ad alto tasso spettacolare. I recenti referendum non solo italiani sull’argomento hanno dimostrato in maniera incontrovertibile quanto poco l’elettore medio sappia dell’argomento, ma in misura maggiore hanno dimostrato, a nostro parere, quanto poco, in fondo, voglia sapere. Perché quello che ci si prospetta davanti è un tema difficile, che rilancia all’infinito un problema etico che un mondo come il nostro sempre più appiattito su una superficialità estetico edonistica non riesce davvero ad affrontare. È, insomma, una responsabilità che si preferirebbe delegare a poche menti illuminate, ad un gruppo di scienziati capaci di comprenderne davvero e fino in fondo tutti i risvolti, mentre a noi, umani spettatori di eventi di portata divina, non dovrebbe restare altro che prendere atto della cosa avvenuta. L’astensionismo vincente non ha dimostrato che questo (oltre che la persistente matrice cattolica ancora vitale nella realtà papalina italiana): che il problema non è ancora entrato abbastanza sottopelle nel tessuto della nostra realtà quotidiana da farci davvero paura, ma non è ancora così lontano da non destare almeno qualche tremito di vivida ancorché generica ansia. Il film di Michael Bay compie, allora, un primo delitto mortale: giunge nei cinema troppo presto quando ancora il timore per il nuovo non si è davvero trasformato in paura concreta, quando tutto nelle nostre coscienze si mantiene in uno stadio involuto, indefinito che non ci permette di prendere posizione in maniera chiara e limpida. Per questo difficilmente il film riuscirà a suscitare dibattiti, difficilmente riuscirà a superare la dimensione di puro divertimento futuribile per assumere la potenza di un monito lanciato verso un domani grigio e stinto che potrebbe davvero essere capace di macchiarsi dei crimini algidamente raccontati nel film. Il secondo delitto del film è glissare su questa incertezza, fingere di ignorare la confusione del pubblico sui temi e cercare di presentare una realtà apparentemente assodata, come se certi assurti dovrebbero essere naturalmente indiscutibili. La responsabilità individuale, il ruolo della scienza nella nostra realtà, il rapporto stesso tra tecnologia e scienza sono risolti in una serie di immagini, certo all’inizio anche allarmanti, ma sempre prossime ad un happy end consolatorio, ad una risoluzione positiva e catartica che non possiamo non auspicarci fin dall’inizio. Insomma, il film non solleva interrogativi, offre risposte ad un pubblico che non ha ancora davvero cominciato a porsi delle reali domande in merito. Sicché si finisce per assistere al film in un clima freddo, quasi anestetizzato perché esso va a toccare dei nervi che non si sono ancora veramente infiammati anche se dovrebbero essere ormai più che scoperti. Poiché l’etica scivola molto rapidamente in secondo piano e sullo sfondo, non resta quindi che l’estetica a sostenere da sola tutto il peso dell’intero spettacolo (il che non è inaspettato in un regista di superficie come Michael Bay). Ed è un’estetica spiccia e videoclippara quella messa in campo in questo immenso fumetto che ha anche il problema di essere un tantino troppo lungo e di mettere troppa carne a cuocere in un calderone di finte riflessioni. Se la prima parte (la più compatta e credibile) respira di un’inaspettata aura romanzesca con la sua descrizione dystopica di una realtà brutale (quella dei cloni e della loro vita in provetta), è la seconda, con l’eterno inseguimento (con la solita scena in autostrada) della coppia di copie a risultare più prevedibile, ma anche più indigeribile. Sospesa l’immedesimazione, persa l’adesione alla vicenda già ben prima della scena aerea della lettera cubitale che precipita dal grattacielo con sopra i due cloni che non si procurano, nella catastrofe, neanche un proverbiale graffio, allo spettatore non resta che perdersi in un’aura da videogioco digitale in perenne movimento, ma inerte al fondo. Da questo punto di vista Michael Bay si rivela il perfetto cantore delle nuove generazioni con il suo altissimo controllo della messa in scena, ma anche con la sua incredibile capacità di spalmare la profondità dei grandi interrogativi filosofici in una dorata superficie spettacolare. Con il suo film clone che ripesca a piene mani sia da classici come Logan’s run che da Philip K. Dick (l’idea della lotteria) il regista americano conferma la sostanziale morte dell’autore nel cinema block-buster americano in favore di un’idea di film griglia in cui la proiezione si risolve in un gioco di linee e colori, in un formalismo assoluto palese nella capacità di gestire spazi e geometrie cui presto bisognerà dare giusta collocazione nelle storie dell’estetica cinematografica. Ma, ci si consenta, non quest’anno. Non con questo film.

(The island); Regia: Michael Bay; sceneggiatura: Caspian Tredwell-Owen, Alex Kurtzman, Roberto Orci; fotografia: Mauro Fiore; montaggio: Paul Rubell, Christian Wagner; musica: Steve Jablonsky; interpreti: Ewan McGregor, Scarlett Johannson, Sean Bean, Steve Buscami, Michael Clarke Duncan; produzione: Michael Bay, Ian Bryce, Walter F. Parkes; distribuzione: Warner Bros Italia; origine: U.S.A., 2005

[Agosto 2005]

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