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The last Hillbilly - TFFdoc/INTERNAZIONALE

Pubblicato il 29 novembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

The last Hillbilly - TFFdoc/INTERNAZIONALE

Concludendo il percorso iniziato con The Evening Hour (http://www.close-up.it/the-evening-...), l’America dei margini ritorna a casa, più precisamente nel Kentucky selvaggio degli ultimi pionieri: attraverso le riflessioni poetiche di Brian Ritchie, minatore decaduto, i registi francesi Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe s’addentrano nel paesaggio roccioso del Nuovo (e vecchio) Mondo, ricostruendone la fisionomia perduta. The last Hillbilly si smarrisce nelle immense praterie ancora vergini, nei declivi melmosi un tempo fertili, nei torrenti putridi fra le cui acque ancora scorre il ricordo dei primi coloni. Se quasi tutta l’opera si muove sul dialetto grossolano e agrodolce di questi uomini dimenticati, ad aprire le danze è l’inno che il protagonista dedica alla propria terra, teatro di scontri ormai inscritti nella storia comune. La cinepresa segue la quotidianità apparentemente degradata di Brian, compiendo un’operazione molto più coraggiosa rispetto a quella già intrapresa da Barbara Cupisti nella sua terrificante visione del sogno made in usa (http://www.close-up.it/my-america-f...). Qui gli Stati Uniti non c’entrano proprio nulla: qui si scorgono i volti degli antichi padri europei che, in un tempo lontano, cominciarono a svuotare i boschi e ad erodere la pietra. I registi spalancano la porta che ci separa da un’etica protestante ormai andata in rovina, ma ancora innestata nella mente dei suoi reduci. Per tradizione e per definizione, l’Hillbilly è ignorante, rozzo, incivile, intollerante, xenofobo, con questo termine si fa tradizionalmente riferimento agli abitanti delle aree rurali e montuose della parte centro-meridionale della regione degli Appalachi. Egli è responsabile di Trump, della crisi da lui stesso provocata, del vuoto che pare fagocitare l’utopia americana in un buco nero. La salopette lisa, lo stivale infangato, il fucile carico: l’Hillbilly è ciò che rimane degli avi fondatori, il residuo di una società contadina e medievale, profondamente religiosa e inevitabilmente blasfema.

L’America del protagonista Brian Ritchie è grande, è gloriosa ed è dannata. Sopra al bestiame infermo, sopra alle radure sofferenti, sopra alla sacralità scaramantica con cui ancora oggi s’intonano i canti passati, regnano un’apatia e una disillusione insopportabili anche per lo spettatore più sprezzante. Bouzgarrou e Jenkoe s’introducono fra le braccia scarnificate della Nazione più ricca del mondo, rinunciando al buonsenso metropolitano con cui si è soliti giudicare senza conoscere. La distopia pastorale in cui i protagonisti s’aggirano appare intonsa nella sua cruda estraneità, l’occhio di chi osserva si fa invisibile fino a scomparire del tutto. L’arretratezza e la miseria che circondano questi cowboy fuori tempo massimo non vengono idealizzate né stigmatizzate, ma si concretizzano nella gentile disinvoltura con cui Brian è capace di riscrivere la sua sfera ordinaria: l’Hillbilly è un reazionario, l’Hillbilly è reo di “tutti i casini che sono successi” fuori e dentro il proprio recinto, l’Hillbilly colonizza l’immaginario occidentale che con tanta indifferenza gli infligge la pena capitale. Questa stirpe di assassini e di martiri si muove in cerchio, ripercorrendo sempre le stesse strade e rassegnandosi all’estinzione: la natura, come ogni buon americano sa, presto o tardi si riprende ciò che le è stato tolto. Così, ogni azione si svuota e perde la sua identità e la sua memoria, diventando semplice abitudine.

L’intelligenza dell’operazione risiede proprio nella ragionevole sensibilità con cui l’obiettivo immortala una realtà facilmente condannabile. Nessuno intende riabilitare i carnefici, nessuno intende punire i colpevoli: ci si limita ad assistere alla noia estiva dei figli, al lavoro massacrante dei genitori, alla ritualità prosaica della vita campestre. L’esistenza condotta da Brian non possiede prospettive, né vie d’uscita degne di chiamarsi tali – ogni fuggiasco rientra nell’utero delle proprie foreste, delle proprie rocce, delle proprie capanne in legno d’acero. Il lungometraggio ci trascina fuori dalla nostra ortodossia, mostrandoci le radici europee di un vecchio west tanto divino quanto profano: a noi, infine, l’ultima parola.


CAST & CREDITS

The last Hillbilly - Regia e sceneggiatura: Diane Sara Bouzgarrou, Thomas Jenkoe; fotografia: Thomas Jenkoe; montaggio: Théophile Gay-Mazas; interpreti: Brian Ritchie; produzione: Films de Force Majeure; origine: Francia 2020; durata: 80’.


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