The Mist
«La gente che conosce Frank solo dai film che ha diretto, resta scioccata dal fatto che vuole fare un film horror, ma una volta che lo hai conosciuto bene, resti ancora più scioccato dal fatto che non ne abbia ancora fatto uno».
Queste parole, pronunciate da Denise Huth, coproduttrice di The Mist, ovviamente riguardano il regista Frank Darabont, autore di un trio di film belli e anche interessanti (Le ali della libertà e Il miglio verde, entrambi tratti da due romanzi di Stephen King, e The Majestic, risalente all’ormai lontano 2001). Darabont, però, aveva esordito nel cinema collaborando allo script di uno dei migliori episodi della saga di Freddy Krueger, ossia Nightmare 3: i guerrieri del sogno. In seguito aveva partecipato alla stesura dei copioni de Il fluido che uccide, La mosca 2 e Frankenstein di Mary Shelley, film tutt’altro che memorabili.
The Mist segna, quindi, non solo un suo rientro sugli schermi cinematografici dopo troppi anni di assenza, ma un vero e proprio ritorno alle origini. Da ciò è risultata un’opera che sa toccare il sublime, ma anche far sentire un insopportabile odore di stantio che lascia interdetti per la sua pochezza.
David Drayton (Thomas Jane) disegna poster cinematografici, nella calma della sua bella casa in riva a un placido lago nel Maine, dove vive assieme all’amata moglie Steff e al piccolo Billy, con in bella evidenza nel suo studio la locandina de La cosa di Carpenter. Almeno questo è quanto possiamo immaginare, poiché bastano pochi istanti perché la prevedibile serenità dell’insieme venga sconvolta dal fuori campo di una tempesta distruttiva. Il mattino seguente la zona è devastata. David decide di scendere al paese più vicino per fare provviste in un supermercato, assieme a Billy e al poco sopportato vicino di casa, Brent Norton, mentre all’orizzonte si profila uno strano banco di densa nebbia. Una volta giunti a destinazione, i molti avventori che con ordine hanno riempito il negozio, si accorgeranno che la coltre sta invadendo tutto, portando con sé qualcosa di terribile. Altrettanto deleteri, però, saranno i conflitti che si manifesteranno all’interno del microcosmo imprigionato nel supermarket, dove la gente sempre più si dividerà tra chi crede ancora in un ultimo baluardo di razionalità, e chi reagirà alla paura affidandosi alle parole cariche di odio della Signorina Carmody (Marcia Gay Harden), una invasata che grida come tutto sia stato causato dalla collera di Dio nei confronti dei peccati commessi dagli uomini. Purtroppo la ’strega’ acquisirà sempre più potere man mano che aumenterà l’offuscamento della ragione.
Ciò che più sconvolge in questa sorta di ennesima variazione sul tema de Il signore delle mosche - ossia la disgregazione della società - ciò che appare come meglio riuscito, è il finale, uno dei più toccanti della cinematografia recente: diverso da quello col quale Stephen King chiude il suo racconto lungo La nebbia (risalente al 1976, è contenuto nella raccolta Scheletri), mostra pochi minuti carichi di emozioni che possono quasi completamente riabilitare un’opera non sempre convincente e che fino ad allora aveva vissuto di momenti alterni; comunque le permettono di farsi bella rispetto a tante opere horror viste negli ultimi tempi.
La ancora scarna filmografia di Darabont può considerarsi come orientata a mostrare la Speranza che si può intravedere anche in una situazione di cattività: quello che è palese nei primi due film, si manifesta anche in quel sentito tributo al cinema di Frank Capra che è The Majestic, dove il Peter Appleton interpretato da Jim Carrey è prigioniero di un passato che non gli appartiene.
In questa ultima fatica tutto è portato ancora più all’esasperazione, rispettando tanti topoi dell’horror: perché l’assedio non può non far pensare a La notte dei morti viventi, sessantottino grido di ribellione del giovane George Romero. Ma proprio l’horror fortemente politicizzato del maestro newyorkese mal si adatta alla scrittura di Darenbort, che risulta didascalico allorché, lungo la seconda parte della pellicola, appesantisce una narrazione che era stata fino ad allora ammirata grazie al suo avanzare lento, fluido e scarno, senza alcun inutile orpello, ma con in più una certa dose di ironia. Invece le accuse nei confronti del Puritanesimo divengono troppo insistenti, cercando di rendere inutilmente chiara una metafora che fin dall’inizio era apparsa in tutta la sua evidenza. Così come le non troppo velate accuse alla politica di George W. Bush, simbolo di una irrazionalità che spesso torna ad incrociare il nostro cammino, avvicinandosi alla petulanza sembrano costituire più che altro degli appigli per la sceneggiatura. Col procedere del caos e della follia dal mondo esteriore a quello interiore dei personaggi, aumenta anche il disordine all’interno del film, che diviene preda di barocchismi dei quali non si sentiva sinceramente la mancanza. E, comunque, non si possono dimenticare come rimangano insoluti certi passaggi, invece ben esplicitati da King: mentre il copione segue abbastanza fedelmente le pagine scritte dall’autore di Portland, vengono tralasciate alcune spiegazioni basilari per aggiungere una maggiore razionalità a un quadro d’insieme girato con un certa ricerca di realismo, fatto che avrebbe permesso all’orrore di svelarsi con ancora maggiore forza (non ci troviamo nei paraggi del Carpenter di The Fog: qui non vi è nulla di soprannaturale, le creature sono fatte di carne e ossa). Così risulta particolarmente fastidioso l’incontro ravvicinato tra la Signorina Carmody e uno degli insetti, venendo esso poi a costituirsi in quanto falsa pista, rivestendo una valenza soltanto metaforica (esistono persone cui l’orrore e la paura fanno comodo) che cozza con la parsimonia dello sguardo profilatosi nella prima parte.
Mentre, invece, appare alquanto funzionale la scarsa capacità recitativa di Thomas Jane che impersona un uomo qualunque, messo di fronte al male che prende vita grazie al carisma di Marcia Gay Harden, idolo che si eleva al di sopra della massa. Massa che, peraltro, è stata diretta e osservata con una certa efficacia.
Comunque è come se Darabont stavolta non fosse riuscito a combinare bene il suo amore per il cinema americano degli anni Cinquanta (in questo caso gli aspetti più naif della fantascienza orrorifica dell’epoca, le tematiche ecologistiche e il ruolo della scienza) con la volontà di esprimersi in maniera più personale: obiettivo, questo, che aveva ampiamente raggiunto nelle opere precedenti. E una particolarità del film è proprio la sua evidente disarmonia e divisione in tre tronconi ben definiti.
Ma il finale... Dopo che la nebbia ha innalzato un monumento al mistero insito nei limiti del visibile; dopo che con delicatezza si è giocato con lo splatter; dopo che a mostruosità sono state aggiunte altre mostruosità con sadica precisione; dopo che, con un ritorno di una tragica ironia, un essere gigantesco procede per la sua strada, troppo grande Lui per accorgersi di una umanità lillipuziana... dopo tutto questo, gli ultimi istanti si dilungano su di un tappeto musicale dolce e insistito (ovvero The Host Of Seraphim, brano dei Dead Can Dance datato 1988 e già più volte utilizzato dal cinema), intervento necessario come tutte le poche volte che la colonna sonora musicale si è fatta sentire, aprendo le porte su di un diverso piano di coscienza e di percezione - come in un film di Michael Mann - imprigionandoci nella nebbia, in un’atmosfera senza tempo, costringendoci a respirare la stessa aria di quei reclusi che, nonostante tutto, probabilmente ancora si chiedono se veramente ’Ciò che non ti uccide, ti rende più forte’.
(id.); Regia: Frank Darabont; sceneggiatura: Frank Darabont (tratta dal racconto La nebbia di Stephen King); fotografia: Ronn Schmidt; montaggio: Hunter M. Via; musica: Mark Isham; interpreti: Thomas Jane (David Drayton), Marcia Gay Harden (Sig.na Carmody), Laurie Holden (Amanda Dumfries), Andre Braugher (Brent Norton), Toby Jones (Ollie Weeks); produzione: Darkwoods Productions, Dimension Films; distribuzione: Keyfilms; origine: USA, 2007; durata: 127’; web info: sito italiano, sito internazionale.