The neon demon
"Molte ragazze ucciderebbero per essere belle come lo sono io"
Jesse
“Vanità...decisamente il mio peccato preferito!” Così recitava un mefistofelico Al Pacino in L’avvocato del diavolo, film diretto da Taylor Hackford nel 1997. Proprio la vanità, e la bellezza, quella fisica, estetica, priva di imperfezioni, sono il nucleo pulsante dell’undicesimo lungometraggio del colto (e ormai considerato dai più accaniti un regista di culto) Nicolas Winding Refn. Il cineasta e sceneggiatore danese, autore, tra gli altri, della graffiante saga Pusher, e degli adrenalinici e conturbanti Drive e Solo Dio perdona, si spoglia di ogni residua timidezza e realizza un horror d’atmosfera abbagliante e paillettato, ambientato nel microcosmo suburbano e spietato delle agenzie di moda in una Los Angeles abitata da lupi solitari, stupratori e giovani ragazzine vittime sacrificali sull’altare della fama.
Esteta raffinato e sperimentatore audace, Refn si spoglia di ogni indumento superfluo già dalla prima sequenza, mostrandoci la protagonista Jesse (una Elle Fanning dotata di una bellezza perlacea, vergine immacolata dai grandi occhioni colmi di speranza) distesa su un divano, in un bagno di sangue, mentre uno sconosciuto la fotografa dall’oscurità in cui è ammantato: è tutta una finzione, perchè Jesse sta posando per un servizio fotografico da sfruttare come credenziale per lanciare la sua carriera nella moda che conta, ma è al tempo stesso un presagio di morte, un’introduzione perfetta a tutto ciò che Refn ci racconterà. Sono trascorsi solo una manciata di minuti e The neon demon ha già corrotto l’anima dello spettatore e della macchina da presa.
La narrazione dilatata quasi allo sfinimento è uno dei marchi di fabbrica del regista danese e se nei lavori precedenti era servita per fungere da contrappunto agli imprevedibili (ma sempre avvertibili) picchi di adrenalina, che sfociavano in sequenze d’azione montate alla perfezione, in The neon demon l’effetto di attesa quasi incalzante, consci di esser spettatori di un horror, viene gonfiata, a tratti stuprata dai cromatismi asettici e artificiali con i quali Refn descrive nel dettaglio gli interni: campi totali annegati nel bianco accecante (il provino di Jesse con il tenebroso fotografo Jack, interpretato da Desmond Harrington), le feste borderline in compagnia dell’amica Ruby (una gelida Jena Malone), avviluppate da un’oscurità che spesso viene lacerata da luciferine vampate di neon rosse, la sequenza della prima sfilata, durante la quale Jesse viene ammaliata e dominata dal demone del neon, barocca trasformazione nell’essenza stessa del desiderio di perfezione estetica, del capovolgimento d’identità della protagonista, nell’alienazione stessa dell’individualità, per cui maligna e distorta nella sua carnalità, durante la quale i primi piani del volto di Jesse e i lisergici campi totali si tingono di viola e porpora, oscuri e convulsivi. Cromatismi al neon che pulsano e assorbono i personaggi al tempo di beat soverchianti, elementi allucinogeni della stratificata colonna sonora elettronica composta dal batterista statunitense Cliff Martinez, navigato musicista dal proficuo passato (Captain Beffheart, Red Hot Chili Peppers) e già avvezzo anche in campo cinematografico (numerose le collaborazioni con Steven Soderberg e lo stesso Refn).
L’efficacia della metodica regia di Refn tocca il suo punto di massima espressività nella scelta di non lasciare alcun elemento al di fuori della messa in scena, identificando la multicromata tavolozza dei colori e la musica in elementi diegetici. La stessa macchina da presa si divincola tra i personaggi, dapprima osservandoli con freddo distacco, per poi ricercare la vera autenticità dei soggetti utilizzando le immagini speculari riflesse in qualsiasi superficie a specchio in cui questi si riflettono, accentuando la tesa ambiguità che copre come un velo invisibile gli sguardi melliflui, i delicati gesti e le morbosità delle modelle: la realtà viene schiacciata dalla finzione, così come le protagoniste uccidono per svestirsi delle imperfezioni naturali dei loro corpi, alla perpetua ricerca di una perfezione illusoria e artefatta, che le divora da dentro come una fame insaziabile, che espleterà il suo logico contrappasso nelle sequenze finali del film, in cui Refn mette in scena la cannibalizzazione del morbo della bellezza, svelando la vera natura del demone del neon, in tutta la sua ambiguità ed efferatezza.
Ovvio che The neon demon non è soltanto un chiaro, seppur prezioso, prodotto commerciale, ma si erge a manifesto di un sistema marcio e ultracompetitivo come lo è il mondo della moda; e nonostante si tratti di un horror che deforma la verità e si nutre di situazioni surreali, The neon demon lascia lo spettatore in uno stato di febbrile terrore di fronte a tanta bellezza. Non la bellezza delle protagoniste (sulle quali non si discute), ma quella raffinata e seducente di un regista qui al suo massimo splendore, che in un’unica passerella annichilisce perfino i suoi lavori precedenti, aprendosi la strada verso un percorso futuro costellato di incantevoli barocchismi, cineasta maturo, ammaliatore (e ammaliato) dal lato oscuro della finzione stessa.
(The neon demon); Regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Nicolas Winding Refn, Mary Laws, Polly Stenham; fotografia: Natasha Braier; montaggio: Matthew Newman; musica: Cliff Martinez; interpreti: Elle Fanning,Abbey Lee, Desmond Harrington, Christina Hendricks, Jena Malone, Bella Heathcote, Karl Glusman, Keanu Reeves, Alessandro Nivola; produzione: Gaumont, Wild Bunch, Space Rocket Nation, Vendian Entertainment, Bold Films; distribuzione: Koch Media, Italian International Film, Midnight Factory; origine: U.S.A., 2016; durata: 117’