The Tribe

È un urlo silenzioso The tribe, pellicola dell’ucraino Miroslav Slaboshpitsky presentata alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2014 e vincitrice di numerosi premi. Un urlo di dolore, strozzato, che si scaglia forte e diretto nello stomaco. “L’autore cinematografico non possiede un dizionario ma una possibilità infinita”, diceva Pier Paolo Pasolini. E il film di Slaboshpitsky sembra proprio essere figlio di questa affermazione. Il regista, qui al suo esordio nel lungometraggio, ci regala, infatti, un’opera incentrata su un’idea estranea al cinema convenzionale e sceglie come protagonisti un gruppo di sordomuti. Nella storia del cinema, così come nell’ultima stagione, di film con protagonisti figure che comunicano con il linguaggio dei segni (dalla Marlee Matlin di Figli di un Dio minore alla divertente coppia di genitori de La famiglia Belier, passando per la Holly Hunter di Lezioni di Piano) ne abbiamo visti diversi, ma The Tribe osa per la prima volta la strada di un racconto interamente recitato con questo linguaggio. Nessuna parola nel film, nessun sottotitolo, nessuna didascalia atta a rendere comprensibili i dialoghi al pubblico.
Il tutto si svolge all’interno di un istituto per sordomuti, dove il giovane Sergery, appena entratoci, si ritrova costretto a sottoporsi ai riti iniziatici della gang che lo “governa”. Scalando le gerarchie della banda e ottenendo la fiducia dei suoi capi, il ragazzo entra nel vortice di violenza e prostituzione da loro indotta. Ma quando si innamora di una delle giovani costrette a prostituirsi, inizia a pensare a come poter uscire dalle regole della banda.
The Tribe sconvolge, turba, a tratti addirittura infastidisce per la violenza messa in scena. E l’aspetto più accattivante del film risiede principalmente in due aspetti: da una parte la contrapposizione tra la forza delle immagini e il silenzio “coatto” dei protagonisti, dall’altra il risultato che raggiunge questo espediente, e cioè costringere lo spettatore a concentrarsi maggiormente sulla visione e, ancora, a cercare un significato andando oltre la stessa. L’opera di Slaboshpitsky si fa dunque un prodotto che, dietro il suo crudo racconto, ragiona sul cinema e il suo linguaggio, sul senso del dialogo e della comunicazione, e che immerge il pubblico in un’unica esperienza sensoriale.
Definirlo un film muto sarebbe però un errore: l’impianto sonoro, infatti, occupa un ruolo fondamentale. I “rumori” della violenza, che contribuiscono alla crescita graduale della suspense emotivo-psicologica, rappresentano uno degli elementi primari della messa in scena dell’angoscia, del dolore, dei sentimenti di tristezza e d’amore dei protagonisti. Il tutto rende il film un’opera prima sorprendente, che forse in alcuni momenti risulta troppo ermetica ed ellittica nel ritratto psicologico – qual è il motivo di tutta questa violenza? – ma che, ironia del magico gioco cinematografico, alla fine lascia senza parole.
(Plemya); Regia e sceneggiatura: Miroslav Slaboshpitsky; fotografia: Valentyn Vasyanovych; montaggio: Valentyn Vasyanovych; suono: Sergey Stepanskiy; interpreti: Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy, Alexander Dsiadevich, Yaroslav Biletskiy, Ivan Tishko, Alexander Osadchiy, Alexander Sidelnikov, Sasha Rusakov, Denis Gruba; produzione: Garmata Film Production, Myrek Films; distribuzione: Officine Ubu; origine: Ucraina / Paesi Bassi, 2014; durata: 130’.
