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THE VILLAGE

Pubblicato il 10 ottobre 2004 da Alfredo De Giglio


THE VILLAGE

C’è una parola che, centrale nella produzione di qualsiasi prodotto, manufatto, artistico e non, è soggetta ad una serie di travisamenti, fraintendimenti, equivoci, mistificazioni, semplificazioni. La parola è autore. Nell’epoca della premessa un film di, è logico interrogarsi sulla valenza di questa figura, soprattutto quando, poi, ogni prodotto viene forzatamente ricondotto al suo autore primo e ultimo che, con il suo presunto/presupposto talento marchia il suddetto (spesso sfigurandolo).
Dovremmo più spesso ricordare ed usare l’interpretazione che vede l’autore come lui stesso frutto del lavoro sociale, come terminale delle tensioni e delle istanze che si raccolgono all’interno di una comunità e che poi sfociano nel manufatto. Naturalmente ci troviamo di fronte ad una forse eccessiva semplificazione, ma è giusto per ricondurre il discorso sul piano collettivo allontanando l’autore dalla concezione romantica del super-uomo, del genio avulso da tutto e da tutti.
Quindi, autore sarebbe chi risulta dotato di una particolare sensibilità ricettiva che incanala le sollecitazioni/impulsi/emozioni che provengono dall’esterno. E questo accade indipendentemente dalla forma che egli decide di dare alla sua opera. Nel nostro caso il film.
Ebbene, e siamo arrivati al dunque, Shyamalan è un autore non solo perché cura ogni parte del processo produttivo, dal soggetto alla messa in scena, ma perché dimostra di sentire la società, di saper terminare (portare a conclusione un processo collettivo) un film che sembra lontano dall’oggi ma invece non lo è, in questi anni in cui il documentario politico del tipo t’intervisto e ti distruggo pare essere diventata l’unica sentinella verso la decadenza e la volgarità della società tout-court, e non solo dello spettacolo.
Perché da un autore (non c’è sinonimo) ci si aspetta sempre uno sguardo superiore, diverso, più lucido, altro. Tutti aggettivi che si attagliano perfettamente a questo The Village che, dietro ad una confezione da thriller, cela una lucida analisi del momento politico e sociale che stiamo attraversando. Più e meglio di una storia vera. Perché non si nasconde dietro ad un singolo caso, dietro ad una parodia filmica del vissuto, ma lancia il proprio sguardo tanto lontano quanto più vicino vuole colpire (Kubrick ce lo ha dimostrato più volte).
Apparentemente The Village sembra andare secoli lontano, ma qualcosa fin dall’inizio ci contraddice: dal primo stormir di fronde, di un bosco notturno e minaccioso, entriamo in una dimensione altra, ottocentesca, nella vita di una comunità integralista che rifiuta il progresso (si fa per dire) e i cambiamenti dell’umanità, rifugiandosi in una strana ortodossia che si basa più sul terrore di soffrire, di provare il dolore che su convincimenti religiosi. Vietato ridere, divertirsi, sventolar le lunghe gonne, assolutamente impossibile uscire dal confine del villaggio e addentrarsi nella foresta circostante. Perché quella è la dimora di esseri innominabili che se fossero disturbati dalla loro quiete...
Inutile dilungarsi a evocare un racconto fitto di suggestioni e tensioni, nel quale ogni immagine rivela una densità emotiva e psicologica fuori dal comune, anche per non rovinare la spiegazione finale, ma quando si parla di verità tenute nascoste, di male che non si può evitare ed allontanare da sé, perché non sarebbe più vita, di azioni che una volta compiute non permettono di tornare indietro, allora la lettura diventa più precisa e l’insieme acquista nuovi ed inquietanti significati.

[ottobre 2004]

regia: M. Night Shyamalan; sceneggiatura: M. Night Shyamalan; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Christopher Tellefsen, Tom Foden; musica: James Newton Howard; interpreti: Joaquin Phoenix, Bryce Dallas Howard, William Hurt, Adrien Brody; produzione: Sam Mercer, Scott Rudin, M. Night Shyamalan; origine: Usa 2004; durata: 108’distribuzione: Buena Vista

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