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Venezia 77 - The Wasteland

Pubblicato il 11 settembre 2020 da Monia Manzo

VOTO:

Venezia 77 - The Wasteland

The Wasteland , (in farsi Dashte Kahamoush), secondo film del regista iraniano Ahmad Bahrami si presenta con uno stile tipico di chi intende comunicare con forza uno stato di disagio immediato, che grazie all’utilizzo del bianco e nero, ricorda una sorta di realismo poetico dalle verità a volte dure e schiaccianti.

Si tratta di un titolo piuttosto importante, che fa riferimento a un capolavoro della letteratura inglese di T.S. Elliott, non è un caso che vi sia questa omonimia, visto che il fulcro di entrambe le opere è rappresentato dalla desolazione e da una visione di disfacimento sia della vita che dei valori che la compongono nel suo farsi. La differenza sostanziale è che mentre Elliott pone il duro confronto tra mito e presente, Bahrami descrive esclusivamente l’ora, la parte finale della nostra becera umanità, composta solo di lavoro, consunzione, ingiustizie, sfruttamento, alienazione della persona.

Colpiscono molto le immagini degli attori - tutti molto funzionali alla sceneggiatura e alla tipologia del film - che hanno delle fisionomie forti, invecchiate, sono molto omogenei tra di loro e rendono l’idea di quell’acredine e stanchezza interiore delle loro anime che si riflette in tutta la pellicola, attraverso una scenografia desolante, appunto una “Terra Desolata”.

The Wasteland è un viaggio in un mondo in scala minore, rappresentato da una cava soffocante, in cui uomini, donne e bambini fabbricano mattoni per un proprietario che vive in città e li paga a suo piacimento, dimostrando uno sprezzo incredibile dell’umanità.
L’uomo di fiducia del padrone è Lotfollah, completamente fagocitato da un ambiente che rappresenta tutta la sua esistenza, infatti ha sempre vissuto nella fornace.
Il logorio della fatica fisica si manifesta in un invecchiamento precoce: ha quarant’anni ma ne dimostra molti di più. Tutti i lavoratori si affidano in uno slancio di disperazione al loro padrone, per risolvere anche delle questioni personali, infatti molti non possiedono la carta d’identità e non conoscono la loro età anagrafica.

Lotfollah funge da tramite tra i manovali e l’imprenditore per qualsiasi questione e si carica di tutte le tensioni emotive non sue. Un giorno il padrone gli chiede di riunire gli operai davanti al suo ufficio perché vuole annunciare loro che la fabbrica chiuderà. Adesso a Lotfollah l’unica cosa che importa è proteggere Sarvar, la donna che ama.
La vita di Lotfollah si è consumata in quella terra arsa dal sole e dalla fornace, nel frattempo si era sempre occupato di mediare con i curdi e aveva accompagnato settimanalmente la donna di cui è innamorato in un viaggio misterioso. Gli operai si erano sempre mossi in claustrofobiche caverne, sfiniti dalla fatica, accettando uno sfruttamento totale perché non concepivano nessun’altro mondo. Fino al giorno in cui tutto si svuota e la fabbrica chiude. La parte finale del film è molto toccante, lascia senza fiato. Il corpo dell’uomo che si mura con quegli stessi mattoni, con cui aveva lavorato per tutta la sua misera esistenza, diventano un unicum con la materia.

Non si può non pensare a un simbolismo universale, secondo cui gli uomini non sono altro che ostie, una chiara epifania cristologica, intesa nell’accezione più perversa: Lofthallah non fa altro che trasformare in azione concreta un continuo atto sacrificale secondo cui molti devono morire per nutrire il resto dell’umanità.


CAST & CREDITS

(The Wasteland) Regia: Ahmad Bahrami; sceneggiatura: Ahmad Bahrami; fotografia: Masud Amini Tirami; montaggio: Sara Yavari; musica: Foad Ghahremani; interpreti: Touraj Alvand, Ali Bagheri, Majid Fahrang; produzione: Saaed Bashiri; origine: Iran, 2020; durata: 102’


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