The Wounded Angel (Panorama)
Nel giorno in cui il Concorso imporrebbe la maratona masochista di Lav Diaz - quasi 500 minuti, a chi scrive ne sono bastati 75 – è stato possibile, grazie alla fuga, concentrarsi su Panorama e vedere uno dei film più belli dell’edizione del 2016, The Wounded Angel di Emir Bagaizin, nato nel 1984, una coproduzione kazako-franco-tedesca. Quando tre anni fa vedemmo a Berlino, in concorso, Harmony Lessons dichiarammo che quell’esordio rivelava un nuovo grande talento. Il film si portò a casa, giustamente, l’Orso d’Argento per la fotografia, ma se avesse preso l’Orso d’Oro nessuno, crediamo, davvero nessuno avrebbe avuto da ridire. Viene da domandarsi perché in un festival che ama coltivare, coccolare le proprie scoperte non sia stata data in concorso una seconda chance a Bagaizin (“confinato” in Panorama), giacché questa prova fornisce una notevolissima conferma di quel talento. Forse, azzardiamo, perché le atmosfere cupe, l’ideologia profondamente nichilista di quel film, le location che ritornano anche in questo, non sono sufficientemente diversificate rispetto all’opera prima, e anche l’attenzione, il focus puntato sugli adolescenti è il medesimo, tanto che Bagaizin ha annunciato che con il prossimo film si chiuderà una trilogia. Eppure, ciò malgrado, il film mostra una ulteriore maturazione, lo stile di un regista che ancora meglio trova sé stesso, dando vita a una storia corale costituita di quattro episodi, con una serie di rimandi interni, incentrati su altrettanti adolescenti che abitano in case di assoluta miseria presso famiglie che non rappresentano modelli e valori (e la stessa cosa, come già in Harmony Lessons vale per le istituzioni educative, religiose, statali), in una zona tutta fatta di catapecchie e fabbriche dismesse. Ma prima di prendere dimestichezza con le quattro storie lo spettatore si trova di fronte: 1) una didascalia che ci dice in che anni siamo. Siamo negli anni ’90, in piena crisi economica post-sovietica, e il Kazakhistan sospendeva di sera l’erogazione della corrente. Ebbene: l’assenza di luce non si limita a lasciare al buio le già misere stanze ma è fin dall’inizio un chiaro indicatore simbolico dell’universo che sta per spalancarsi: manca la luce della speranza, manca anche la luce delle fede pur in contesto che in teoria sarebbe alquanto ortodosso (siamo in territorio a larga prevalenza musulmana); 2) una suddivisione in capitoli, à la Lars von Trier, con titoli piuttosto impegnativi tipo “The Fall” (“La caduta”), “Greed”(non von Stroheim, ma proprio il peccato mortale, ossia l’avidità) oppure ancora “Sin”, il peccato. Intervistato, il regista ha peraltro dichiarato in modo esplicito che il peccato è il trait d’union di tutte le storie raccontate. Come in Breaking the Waves i titoli sono accompagnati da illustrazioni; qui esse sono tutte tratte da un’opera dell’artista simbolista finlandese Hugo Simberg, un affresco conservato sul soffitto della navata principale della cattedrale di Tampere che riproduce la scena del peccato originale, con un lunghissimo serpente che si snoda per molte decine di metri. In quella stessa cattedrale Hugo Simberg ha dipinto una nuova versione di quello che resta il suo quadro più celebre intitolato Haavoittunut appunto L’angelo ferito. Nel film il personaggio dell’angelo ferito viene menzionato una sola volta, ma non lo conosceremo mai. Le quattro storie dei quattro ragazzini raccontano tutte di ambizioni ferite, di emancipazioni fallite: emanciparsi dal padre che ha trascorso un periodo in galera (Zharas), essere ammesso al conservatorio in grazia delle proprie doti canore, riuscendo così ad emanciparsi dalle dinamiche tribali e bullistiche di un gruppo di adolescenti (Balapan), arricchirsi vendendo rame raccattato in mezzo alle rovine e magari un giorno lasciare quei luoghi infami (Zhaba), studiare medicina (Aslan). Come mai tutti questi progetti falliscono? Perché i quattro ragazzini sono in fondo brutti, sporchi e cattivi – tutti a un certo punto si macchiano di un qualche “peccato” - o perché non esiste mobilità sociale in quel mondo di disperati? Probabilmente per entrambe le ragioni, ed entrambe le ragioni raccontano quella medesima disperazione senza la minima possibilità di redenzione che già aveva contrassegnato Harmony Lessons. E come nel primo film anche qui regista e direttore della fotografia (il celebre Yves Cape non più Aziz Zhambakiyev) danno vita a inquadrature di straziante perfezione formale, rasoiate di uno splendore assoluto. Siamo dalle parti di Tarkovskij, di von Trier, appunto, di Kieslowski. Se Bagaizin saprà in futuro applicare il suo rigore, la sua drammaturgia anche a contesti diversi potremo trovarci di fronte a un grande autore. Che le produzioni nazionali più attive in Europa, quella francese e quella tedesca, gli abbiano messo gli occhi addosso, del resto, non può essere un caso.
(Ranenyy Angel); Regia e sceneggiatura: Emir Baigazin; fotografia: Yves Cape; montaggio: Emir Baigazin; interpreti: Nurlybek Saktaganov, Madiar Aripbai, Madiar Nazarov, Omar Adilov; produzione: augenschein Filmproduktion, Capricci Films, Kazakhfilm Studios; origine: Kazakistan, Germania, Francia, 2016; durata: 112’