Second chance

Ritratto di una famigliola apparentemente felice e del suo riflesso in uno specchio oscuro: questo, in estrema sintesi, il percorso narrativo messo in campo in Second chance di Susanne Bier.
Al di qua dello specchio ci sono Andreas, un poliziotto dallo sguardo pulito, la moglie Anne e loro figlio Alexander, un neonato che sembra addormentarsi la notte solo se il padre lo porta in giro in macchina o la madre lo fa passeggiare nelle strade deserte dell’inverno danese.
Dall’altro lato ci sono invece Tristan, un tossico di lungo corso che vorrebbe costringere anche la moglie, Sanne, a farsi di eroina e il loro piccolo Sofus che sembra godere di ottima salute anche se viene spesso lasciato sul pavimento a sporcarsi fin sui capelli con i suoi stessi escrementi.
La dinamica speculare che lega gli uni agli altri i vari personaggi di questa tragica ronde è perseguita in maniera ossessiva sin dalla sceneggiatura. Al padre poliziotto corrisponde, infatti, un padre criminale, mentre le due donne coniugano in modi diversi la loro raggiunta condizioni di madri. Mentre Anne, infatti, sembra stentare a ritrovare un equilibrio dopo la nascita del piccolo perdendosi in una discendente china depressiva, Sanne sembra trarre dalla nascita di Sofus se non altro il desiderio di liberarsi dall’oppressione del marito e dalla dipendenza dalla droga.
Da parte loro i due bambini sono un vero e proprio ossimoro: il primo malaticcio malgrado la casa lussuosa e le cure che lo circondano, il secondo pasciuto e ben nutrito nonostante la sporcizia che ha intorno.
La situazione volge in tragedia quando Anne, una notte, si accorge che il piccolo Alexander non respira più e sembra quasi impazzirne. Andreas, spaventato all’idea che la moglie compia qualche follia, decide di andare in casa di Tristan e prendersi il piccolo Sofus lasciando al suo posto il cadaverino di suo figlio.
Di qui in poi il film prende le strade di un dramma psicologico in cui ciascun personaggio sembra perdersi nelle spire di un lutto di impossibile elaborazione. E se le madri si chiudono nel vuoto di un’attesa incolmabile, incapaci a comprendere la morte del figlio, gli uomini da parte loro precipitano l’azione nell’illecito: il primo compiendo un vero e proprio rapimento il secondo simulandone un altro per giustificare alla polizia la scomparsa del suo piccolo.
Susanne Bier ha mano felice quando, libera dall’impaccio dell’azione, concentra la sua macchina da presa su volti e dettagli significanti in cerca di uno scavo esistenziale del vissuto dei personaggi. E scopre una levatura incredibilmente tragica che riesce a rendere potenti certe scene (basti pensare a quella della sostituzione del bambino in casa di Tristan quando Andreas è costretto a sporcare di escrementi il corpicino del suo stesso figlio).
Notevole è anche l’uso di un paesaggio giammai indifferente in chiave drammatica, coadiuvata in questo non solo dagli scenari danesi, ma anche dalla sapiente fotografia di Michael Snyman.
Ad essere poco convincente, in fondo, è proprio la sceneggiatura troppo calcolata nelle sue stesse dinamiche strutturali, troppo zeppa di situazioni e eventi, troppo studiata a tavolino e, per questo, apparentemente poco vera e spesso poco credibile.
Peccato, perché Second chance aveva gli ingredienti per essere una solida incursione autoriale in certo cinema di genere. O, per restare alla dinamica degli specchi, per essere un fiammeggiante dramma esistenziale con spruzzate quasi thriller.
Il suo problema è che finisce per essere tutte e due le cose e, quindi, forse, nessuna.
(En Chance Til); Regia: Susanne Bier; sceneggiatura: Anders Thomas Jensen; fotografia: Michael Snyman; montaggio: Pernille Bech Christensen; interpreti: Nikolaj Coster-Waldau (Andreas), Ulrich Thomsen (Simon), Maria Bonnevie (Anne), Nikolaj Lie Kaas (Tristan), Lykke May Andersen (Sanne); produzione: Zentropa Entertainments34; origine: Danimarca, 2014; durata: 104’
