Memorie. In viaggio verso Auschwitz

Una videocamera accesa quasi per caso riprende, senza che nessuno la manovri, due fratelli che salgono su un treno.
Il pianosequenza involontario cattura l’inizio del viaggio che è il centro di tutto il documentario quasi per sbaglio, come se non ci fosse stata davvero l’intenzione di accendere l’apparecchio di ripresa e di cominciare a raccontare.
Del resto non c’è un occhio dietro la macchina da presa che cattura in corsa pezzi di marciapiede, gambe, sedili sporchi e qualche voce. Solo il rigido meccanicismo di un congegno elettronico che, non appena gli dai corrente, inizia inesorabile a registrare, in mancanza di ogni altra cosa, anche solo il buio o l’assenza di ogni suono.
Inizia all’insegna della frattura tra volontà a possibilità, tra Io e Tu, tra esigenza di dire e limiti tecnologici (e per estensione anche estetici) Memorie. In viaggio verso Auschwitz.
Una frattura insanabile che si porta le stimmate di una condanna senza appello: voler dire e sapere, ad ogni passo, che quel che alla fine riesci a dire non è veramente quello che avevi in mente e che quello che la macchina da presa ha catturato è, nella migliore delle ipotesi, la metà di quello che ti è passato sotto gli occhi.
Disperata consapevolezza di chi filma il Reale e non le storie partorite dalla fantasia di qualche scrittore seduto a tavolino!
Il film mette al centro, sin dai primissimi momenti, l’idea che tra l’evento che misterioso si manifesta davanti alla macchina da presa e il tempo necessario anche solo a premere il pulsante di registrazione esiste uno scarto incolmabile che è perduto per sempre. Che tra la cosa e il semplice atto di guardarla c’è un’ellissi che resta fuori dal progetto, cosa non detta e non dicibile. Il più delle volte un rimpianto che l’autore si porta addosso.
Memorie. In viaggio verso Auschwitz gonfia quest’ellissi fino a farla diventare l’opera nella sua interezza.
Il film, bellissimo e utopico, non è che un teso, dilatato, disperato anelito che si allunga tra l’idea (il mettersi in viaggio) e l’oggetto (il confronto con il dramma). È come se il film facesse oggetto del proprio discorso non la realtà in sé, ma quello spazio che c’è tra lo scorgerla e imbracciare la macchina da presa per filmarla.
In questo spazio compresso in cui le cose ci sono già e non ci sono ancora si ammucchiano desideri, rimpianti, ricordi e aspettative. Tutti insieme aggrovigliati, tutti insieme che non sono ancora un dire, ma quel Caos che precede il principio ordinativo del dire.
In questo spazio due fratelli si confrontano. Si sono messi in viaggio verso Auschwitz, per un pellegrinaggio.
Due fratelli che non si parlano più perché hanno preso strade troppo differenti e che vedono nel viaggio in treno l’occasione per un confronto sulle rispettive scelte.
A monte la decisione di filmare tutto, di fare dell’incontro spazio di lavoro per un possibile documentario.
Memorie. In viaggio verso Auschwitz non è una seduta di psicoanalisi perché non c’è distanza tra le parti. Piuttosto è la storia di un confronto a tratti duro e aspro, ma sempre disperatamente vero.
Sullo sfondo, eterna e raggelata rappresentazione del dolore, la meta: Auschwitz, la fabbrica di morte.
Il film non è un confronto impossibile tra il dolore delle vittime e quello quotidiano dell’oggi, ma la presa di consapevolezza che quel dolore quotidiano cresce, proprio come l’erba verde di Resnais, tutto intorno alle rovine di un campo che ci fa da monito senza consolare.
Semmai ci regala, freddo e lacrimante, un disperato senso di vergogna che ci riporta ai nostri limiti e ci impone un bisogno di silenzio.
La rivoluzione copernicana rispetto ai più classici film memoriali non potrebbe essere più radicale.
Auschwitz qui cessa di essere quel luogo dal quale veniamo per diventare esigenza di un confronto rispetto alle motivazioni del nostro quotidiano andare.
In questo il film cessa di essere espressione di dolori e destini individuali per accedere all’universale.
E ci lascia con una bruciante sensazione di sincerità.
(Memorie. In viaggio verso Auschwitz); Regia, fotografia, montaggio: Danilo Monte; musica: Massimo Arvat; interpreti: Roberto Monte, Danilo Monte, Salvatore Monte, Irma Mucci, Tullio Monte, Jessica Serioli, Gabriel Monte, Lorena Grigoletto, Laura D’Amore, Simona Tilenni, famiglia Marinello; produzione: Don Quixote, Polivisioni.Org; origine: Italia, 2014; durata: 76’.
