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La teoria del Tutto

Pubblicato il 18 gennaio 2015 da Alessandro Izzi
VOTO:


La teoria del Tutto

Stephen Hawking ha lo strano privilegio di essere una figura equamente amata da americani e inglesi.
I primi lo venerano per la sua storia personale, per essere stato capace di fronteggiare la propria malattia con spirito indomito, senza mai abbattersi, ma conservando l’estrema lucidità del suo pensiero.
I secondi, per converso, più attenti a rispettare anche l’accademico e non solo il self made man, lo considerano una sorta di gloria nazionale da portare in palmo di mano quasi alla stregua di Shakespeare.
La peculiarità di Hawking, che forse in parte gli deriva propria dalla malattia che lo ha costretto ancora giovanissimo sulla sedia a rotelle, è il suo essere una figura di spicco della fisica mondiale (quella che ragiona di stelle con i termini astrusi e spesso incomprensibili della matematica) e al tempo stesso un’icona pop capace di imporsi come ospite fisso di una serie televisiva animata e di culto come I Simpson.
Una peculiarità che non poteva non allettare il cinema che ha atteso fino al settantesimo compleanno del noto fisico per mettere mano alla sua biografia (ma prendendo a soggetto il libro della ex moglie e non l’autobiografia) e sfornare finalmente un film.

Da quanto detto sinora non deve stupire che il film sia alla fine il frutto di una coproduzione tra americani e inglesi, entrambi ansiosi di trasformare questa icona della cultura novecentesca in una redditizia macchina sforna quattrini.
La doppia bandiera che batte sulla produzione porta, comunque, all’operazione un carico di pregi e difetti già a monte del film stesso e che sono come i debiti sulle spalle dei neolaureati americani che avevano dovuto accendere un mutuo per permettersi gli studi.
L’anima americana, infatti, cerca di far puntare il film verso il nord del racconto edificante, adatto a tutte le occasioni, una di quelle classiche storie americane, quindi, che ha due soli difetti (non insormontabili per i producers): il primo che è inglese e il secondo che è una storia vera.
L’anima inglese spinge invece, grazie all’impegno della Woking title ormai specializzata e con ottimi risultati nel versante delle commedie sementali, ma anche di certi film di impegno sociale, verso i lidi di una confezione accuratissima sotto il punto di vista formale e con attori eccellenti (tutti cavalli di razza di una stessa scuderia).
A far da collante un pizzico di humour inglese che per i connazionali di Shakespeare è come il te delle cinque e che non dispiace neanche agli americani perché li fa spesso sentire più intelligenti.

Il risultato è un film bifronte che spesso commuove e che in alcuni tratti è anche molto bello, ma che resta piuttosto prevedibile non tanto per la storia (che alla fine è nota) quanto per le strategie retoriche che ce la restituiscono.
The theory of everything è un film che non sorprende e che, per questo, strano a dirsi, ci rassicura. Un film che ci riempie gli occhi di emozioni, ma che sembra ispirarci meno del dovuto. Un’opera bella e densa, con tutte le cose al posto giusto a al momento giusto, ma che sembra più che altro preoccupata dall’idea di non offendere nessuno.

Insomma un’opera divulgativa e a tratti pregevole che si ricorda per l’eccellente interpretazione dell’intero ensemble degli attori e per alcune battute che spezzano in levare l’emozione in maniera formidabile, ma non crediamo il film definitivo su una delle menti più eccelse della fisica a cavallo tra secondo e terzo millennio.


CAST & CREDITS

(The Theory of Everything); Regia: James Marsh; soggetto: dal romanzo Travelling to Infinity: My Life with Stephen di Jane Hawking; sceneggiatura: Anthony McCarten; fotografia: Benoît Delhomme; montaggio: Jinx Godfrey; musica: Jóhann Jóhannsson; interpreti: Eddie Redmayne (Stephen Hawking), Felicity Jones (Jane Hawking), Charlie Cox (Jonathan Hellyer Jones), Emily Watson (Beryl Wilde), Simon McBurney (Frank Hawking), David Thewlis (Dennis Sicama); produzione: Working Title; origine: USA/UK, 2014; durata: 123’


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