TORINO FILM FESTIVAL 2006 - CONCORSO - LE DERNIER HOMME

Beirut. Nell’ospedale dove lavora Khalil, giorno dopo giorno arrivano sempre più cadaveri dissanguati e “marchiati” sul collo o sul petto, verosimilmente uccisi dalla stessa mano. Indagando sulle cause della morte, il medico inizia un lungo viaggio nel delirio mentre si evidenzia in maniera sempre più incisiva un legame impalpabile e allo stesso tempo imprescindibile con gli omicidi.
Pur partendo da buone premesse, Le Dernier homme risulta per molti aspetti un appuntamento mancato. E’ difficile liberarsi dall’impressione che il film sia inconcludente, e che sarebbe stata necessaria una maggiore chiarezza già in fase di scrittura.
L’opera si presenta a un primo sguardo come un’affascinante rilettura del tema del vampirismo, inteso come malattia esistenziale che infetta una vittima condannandola a uno stato di perenne sospensione tra la vita e la morte, tra la non vita e la non morte. I corpi che arrivano nell’ospedale sono tutti dissanguati e segnati da un emblematico morso: il serial killer che si aggira per Beirut, anche se ciò non viene mai esplicitato, sarebbe dunque un vampiro. Parallelamente, Khalil sprofonda nel baratro: prende a odiare la luce, è attratto dal sangue, si concede lunghe e ipnotiche passeggiate notturne. Forse anche lui è stato morso, in una notte di cui non riesce a ricordare nulla. La bontà dell’idea di Le Dernier homme, a questo primo livello di lettura, sta proprio nel suo rapporto con il tema del vampirismo: il discorso che il film porta avanti è estraneo ad una vera logica di genere, e intende raccontare del Doppio e dello smarrimento individuale; i cliché riguardanti il vampirismo sono una forma del discorso stesso, una metafora che il film adotta come riferimento del testo. Mentre all’opposto, appunto, il centro del testo è l’esperienza esistenziale di Khalil, fatta di lunghi silenzi e sguardi impenetrabili, che lo conduce faccia a faccia con se stesso e con il suo doppio. Non sappiamo mai chi o cosa muova effettivamente il protagonista, se sia lui a vivere la sua vita o invece non sia già vissuto dalla sua ombra. Nella malsana allucinazione del film, Khalil resta indecifrabile, ambiguo. Privo di psiche, tutto corpo; pieno e affamato di sangue, così come i cadaveri ne sono svuotati (lastre e microscopi riveleranno poi l’interiorità di questi, corrotto, malato e misterioso).
Mentre il Doppio si fa strada nella storia, la presenza di Khalil diventa via via più impalpabile. La sua identità si disgrega e rivela una natura fantasmatica. In questo vero decadimento della materia, accompagnato dalla visione di una Beirut in disfacimento, Ghassan Salhab non racconta una storia, piuttosto sceglie di scrivere e riscrivere un’idea, descrivere la figura di questo non morto presente-assente attraverso un linguaggio suggestivo, fatto di immagini evanescenti, insistendo su transizioni e sovrapposizioni. E’ qui che il film mostra la sua debolezza. A lungo andare, non riesce ad evitare di perdersi, incapace di gestire il ritmo imposto da quel linguaggio fatto di inconsistenze e sfocature. Sceglie la strada della discontinuità di scene ed immagini, rinunciando di fatto a una seria struttura narrativa. Il film è smarrito in una frammentarietà senza scampo e senza coerenza. I silenzi cui accennavamo contribuiscono poi alla lentezza del film, che risulta alla fine esasperante. Come nella lunga notte finale, si continua incessantemente a girare, sperduti, alla ricerca di un approdo.
(Le Dernier homme) Regia: Ghassan Salhab; soggetto e sceneggiatura: Ghassan Salhab; fotografia: Jacques Bouquin; montaggio: Michèle Tyan; musiche: Cynthia Zaven; scenografie: Helen Boyce; costumi: Ihsan kavas; interpreti: Carlos Chahine (Khalil), Aouni Kawas, Fayek Hmaissé, Mary Sahab; produzione: Agat Films & Cie; origine: Francia-Libano, 2006; durata: 101’
