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TORINO FILM FESTIVAL 2006 - DETOURS - SERRAS DA DESORDEM

Pubblicato il 14 novembre 2006 da Andrea Esposito


TORINO FILM FESTIVAL 2006 - DETOURS - SERRAS DA DESORDEM

Andrea Tonacci è forse uno dei più grandi registi del Brasile contemporaneo. Nato a Roma ma brasiliano d’adozione, è in attività dal 1965, quando esordì con i suoi primi cortometraggi. Dal 1977 al 1984 gira una serie di documentari sulla cultura indigena del continente americano. In questo Serras da Desordem Tonacci realizza, come afferma lui stesso, un “racconto di finzione documentata”. La vicenda dell’indio Carapirù viene ricostruita dagli stessi protagonisti, non solo con interviste e dichiarazioni di oggi, ma facendo loro recitare la storia che vissero all’epoca.

Il film racconta appunto la storia dell’indio Carapirù, scampato fortunosamente all’eccidio della sua tribù commesso da alcuni proprietari terrieri. Trovatosi solo, prende a vagare per anni sulle montagne del Brasile, fino a quando non viene catturato dalla gente di un piccolo paese; dopo un breve periodo di permanenza viene portato a Brasilia dove diventa una piccola celebrità e si scatena un dibattito mediatico sulle questioni riguardanti la sua identità. Nessuno comprende il suo linguaggio, e linguisti ed antropologi faticano ad accertarsi della sua origine. Viene chiamato pertanto un ragazzo indio, l’unico che riesce a comprendere quello che dice. A questo punto, Carapirù ha ritrovato il filo con le proprie radici, e sta per fare una spiazzante scoperta.

Serras da Desordem adotta appunto il linguaggio del documentario, un vero documentario che riprende la vita degli indios di cui fa parte Carapirù. La telecamera registra la loro quotidianità semplice; li vediamo accendere fuochi, riposarsi, vediamo i bambini che giocano con gli innumerevoli animali che li circondano. Tonacci punta a una regia trasparente, che si limiti ad osservare la vita che gli si muove davanti. Allo stesso tempo non finge mai di non esserci: gli indios che guardano in camera, le percezione della presenza fisica di una mano che regge la macchina da presa, tutta l’oggettività invisibile della testimonianza crea un effetto di verità straordinario. L’apice sarà raggiunto nel finale, quando è ripreso lo stesso regista che parla con Carapirù da dietro la telecamera. La trasparenza totale non è raggiunta con l’invisibilità, ma quando il cinema mostra sé stesso. Una verità del film che viene poi sostanziata dall’inserto della fiction nel documentario: gli antichi protagonisti della storia - Carapirù, gli altri indios, gli uomini e le donne del paese che entrarono in contatto con lui - interpretano nuovamente la vicenda. La storia ripercorsa (reinterpretata, rivissuta) si alterna con interviste e filmati dell’epoca. Questa ripetizione sembra mettere in scena una sorta di “teatro di vita”. Come fosse un rito, con cui tramandare la storia semimitica di Carapirù.

Emerge la vita, al di là di ogni differenza culturale. Senza esotismi. E senza commenti, senza riserve. Ancora più che reale, tutto emerge come naturale, non solo vero, ma giusto in sé per sé. Tonacci ci dice che è possibile la comprensione tra due mondi tra loro alieni, che non possono condividere la cultura dell’altro, e meno che mai il suo linguaggio (splendidi gli incomprensibili monologhi di Carapirù). Allora si è nudi, spogliati di qualsiasi arma/armatura comunicativa. E’ in quello spazio vergine che si viene a formare che è possibile la comprensione, l’invenzione del contatto con l’altro essere umano. Non c’è giudizio. La civilizzazione è un incontro.

(Serras da Desordem) Regia: Andrea Tonacci;sceneggiatura: Andrea Tonacci, Sydney Ferreira Possuelo, Wellington Gomes Figueiredo; fotografia: Aloysio Raulino, Alziro Barbosa; montaggio: Cristina Amaral; musica: Rui Weber; scenografia: Arnaldo Zidan; interpreti: Carapirù, Tiramukon (Bemvindo), Myhatxià, Camairù, Magadàn (Tiramukon); produzione: Extrema Producao Artistica; origine: Brasile, 2006; durata: 135’


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