Transformers

Da un certo punto di vista Transformers di Michael Bay tocca il punto estremo della rappresentabilità digitale, sfonda le soglie del visibile e si pone sul guado ambiguo che separa ciò che è percepibile dal puro caos delle forme e dei movimenti.
Legato ad una dinamica che è certamente debitrice anche del mondo delle playstations, infatti, il film del regista americano sembra ossessionato da un’idea di cinetismo esasperato. Ogni azione si fa puro movimento sulla superficie sempre più bidimensionale dello schermo, e tale movimento, sospinto da un desiderio di sfolgorante virtuosismo, viene sempre più enfatizzato, sempre più reso unico e solo protagonista della scena. Lo si vede abbondantemente nelle scene di combattimento, quando robots buoni e robots cattivi, Autobots e Deceptions si scontrano, ad armi pari, in uno scenario cittadino che non è mai stato così inerme e così meramente “sfondo”. In questi momenti estremi l’ossessione per il movimento, per la rapidità, per la successione svelta di gesti e parole diventa preponderante rispetto al senso dell’azione. Il principio della meraviglia prevarica la concezione narrativa del prodotto e capire davvero le sorti dello scontro diventa, per lo spettatore, secondario, poco importante. Ogni combattimento ha un inizio e una fine che restano precisi. “Sfida” ed “esito della battaglia” mantengono quasi inalterata la loro funzione narrativa, ma quello che è in mezzo, quello che è preso tra questi due momenti topici resta paradossalmente “perso” per lo sguardo che dovrebbe contemplarlo. Perso perché troppo veloce, perché diventa indefinito, per l’occhio cui non è più permesso di seguire tutto, il confine che separa ciò che è animato (il robot) da ciò che è, invece, inanimato (i calcinacci strappati ai palazzi, i pezzi di automobili e di aerei coinvolti negli scontri ecc.). Il visibile, spinto al massimo grado della rappresentabilità, torna paradossalmente ad essere invisibile e ciò che è vivo e ciò che non lo è finiscono per essere fatti, per lo spettatore, due volte della stessa sostanza: la prima volta perché un pezzo di transformer sembra forgiato nello stesso metallo del carburatore di una comune vettura; la seconda perché, ai fini della percezione del film, tanto l’uno quanto l’altro sono niente più che immagini, figure immerse nel flusso del movimento. A questi livelli diventa superflua anche la possibilità di discernere la differenza tra, mettiamo, un pezzo di cornicione ed un uomo. Quando durante lo scontro definitivo tra Megatron e Optimus Prime il primo cade in mezzo ad un gruppo di persone, si libera dell’impiccio momentaneo dei malcapitati umani con disgusto lanciando un povero ragazzo con un movimento stizzito del “braccio”. In questo gesto si consuma tutto il giudizio sulla disumanità dei Decptions eppure, paradossalmente, anche per lo spettatore, quella comparsa non è niente di più di un oggetto di scena, un pezzo di carne che appare tanto inanimato quanto potrebbe esserlo il tramezzo di un palazzo sventrato dalla furia dello scontro. In questa confusione tra animato ed inanimato (forse voluta dal momento che protagonisti della scena sono delle forme di vita inorganiche: un ossimoro apparente) a farne spese prima di tutto è il nostro modo di percepire la voce. Abituati da sempre ad associare l’“umano” alla voce (ivi compreso il caso di limite di Hal 9000 in 2001: odissea nello spazio che, in quanto solo voce, è addirittura più umano degli uomini) ci troviamo un po’ sconcertati di fronte a certe scene in cui la voce dei robot sembra sovrapporsi forzosamente sulle immagini dei loro combattimenti. Precludendoci la possibilità di vedere il movimento delle labbra di chi proferisce le parole (nella confusione generale di corpi e movimenti di cui parlavamo prima) le voci dei personaggi animati digitalmente (si salva il solo caso del piccolo Trasformer spia) assumono uno statuto ambiguo a metà tra voce reale ed voce fuori campo: degli acusma incompleti.
Sicché si fa labile in confine tra Umano e Troppo Umano, ma questa incertezza, che potrebbe essere apportatrice di un “senso” in realtà è solo confusa e fa sembrare molte parti della pellicole “mal girate” o “mal doppiate”.
Per il resto il Michael Bay touch si fa vedere molto chiaramente nella prima e nell’ultima parte del film (per intenderci nei momenti più chiassosi e fracassoni, ma anche quelli in cui emerge un preciso discorso sull’eroismo e sulle donne forti, riprese in primo piano con una luce al sapore di alba), mentre brilla per una certa originalità di approccio (grazie ad un montaggio inusuale che spinge molto sul pedale di un’autoironia né pesante, né pedante e ad uno Shia LeBouf davvero strepitoso) tutta la parte più adolescenziale che assume connotati divertiti ed auto consapevoli. In fin dei conti l’intera pellicola non è che l’espressione di un preciso meccanismo di marketing, di oggetti da mettere in vendita. Sarà per questo che incontriamo per la prima volta il nostro protagonista mentre tenta di vendere (sfruttanto anche ebay) i cimeli di famiglia. Il commercio è, allora, forse l’anima più vera del film?
(Transformers); Regia: Michael Bay; sceneggiatura: Alex Kurtzman, Roberto Orci; fotografia: Mitchell Amundsen; montaggio: Todd E. Miller, Glen Scantlebury, Paul Rubell, Tom Muldoon; interpreti: Shia LaBeouf (Sam Witwicky), Megan Fox (Mikaela), Josh Duhamel (Capitano Lennox ), Rachel Taylor (Maggie), Tyrese Gibson (Epps), Jon Voight (Keller), Anthony Anderson (Glen), John Turturro (Agente Simmons); produzione: Prime Directive, Paramount Pictures, Angry Films, Di Bonaventura Pictures; distribuzione: Universal; origine: USA, 2007; durata: 140’; webinfo: Sito ufficiale e Sito italiano
