Transformers 2 - La vendetta del caduto

Con La vendetta del caduto Michael Bay compie un passo molto deciso verso il recupero del corpo e della fisicità all’interno del panorama digitale. Il nuovo film della serie Transformers (una serie che probabilmente si accrescerà in futuro di nuovi e più avventurosi capitoli) sembra volersi muovere in controtendenza rispetto a quelle che erano state le intenzioni del primo capitolo che, al contrario, si spingeva verso un’estrema rarefazione dell’immagine e verso un punto di non ritorno della figurabilità digitale. Gli effetti speciali, da sempre centro orbitante di operazioni di questo genere, sono qui messi al servizio di una precisa definizione volumetrica degli spazi e dei corpi che quegli spazi attraversano. Mentre il primo Transformers sembrava essere girato con un occhio alla superficialità del videogioco e con l’altro al bisogno di un’immagine quanto più possibile cinetica e movimentata, in questo nuovo episodio si ha piuttosto l’impressione che il regista insegua la chimera di un’immagine che si faccia improvvisamente pesante e piena.
Da questa vocazione alla concretezza sortiscono alcune conseguenze fondamentali. La prima è che la luce comincia a giocare nel corpo dell’inquadratura un ruolo fondamentale perché essa sola riesce concretamente a definire con chiarezza i volumi e la loro persistenza nello spazio e sulla nostra retina. Contrariamente alla sua prassi abituale (almeno da Armageddon in poi) il regista è qui particolarmente avaro nell’uso di luci sfumate o di filtri colarati volti ad un consapevole appiattimento del quadro. Sono pochi i momenti in cui i personaggi finiscono sfiorati da quella placida luce rossasta di sole al tramonto che li traforma in vere e proprie icone bidimensionali. Più spesso l’illuminazione della scena sceglie contrasti netti, tagli di luce forzati che definiscono con maggior chiarezza colori improvvisamente vividi. Si pensi alla scena dello scontro tra Autobots e Decepticons nel quale Optimus Prime perde la vita, con quei raggi di sole disegnato dalle foglie che si riversano sulle masse di lamiere dei robot per rendersi conto di questo nuovo inaspettato bisogno di un maggior realismo fotografico. Oppure si riportino alla mente le scene buie della prima notte all’Università o quelle in cui l’eccessiva limpidezza dell’ordito è data dalla luce secca e priva di umidità del deserto egiziano. A ben vedere il ben noto vizio del regista di cadere nella tentazione di un’immagine abbondantemente iconica e priva di implicazioni realistiche torna con prepotenza solo durante la battaglia finale: un momento del racconto troppo topico perchè si possa rischiare con scelte troppo azzardate.
La seconda conseguenza di questo appesantimento dell’immagine digitale riguarda l’ordito sonoro della pellicola. A questa nuova immagine improvviamente più concreta deve, infatti, corrispondere un lavoro sul suono altrettanto cesellato e dettagliato. Lo sferragliare delle macchine che si trasformano sotto i nostri occhi diventà così fondamentale per aumentare la carica di realismo fotografico del film e i suoni metallici finiscono per assumere, nella complessa partitura sonora della pellicola, un peso preponderante. In questo modo la drammaticità degli scontri ne risulta amplificata e in certo modo magnificata.
A questo incremento di pathos (che potrebbe spingere il film verso lidi più decisamente horror e, comunque non più adatti ad un pubblico infantile, si pensi solo alla sequenza di prologo così ampiamente terrorizzante) corrisponde, come terza conseguenza, il bisogno di un totale riassetto della componente ironica che deve aumentare per riequilibrare un discorso altrimenti troppo adulto che potrebbe inimicarsi quella fascia di pubblico sulla quale i produttori dovevano puntare di più. Ecco allora che il discorso si riempie di siparietti comici e di momenti di alleggerimento che funzionano soprattutto grazie all’invidiabile bravura degli interpreti.
Ed è proprio sul versante attoriale che misuriamo la maggiore novità di questa pellicola rispetto al prototipo di appena due anni fa. Non solo perchè gli attori devono tener dietro a personaggi che sono cresciuti (si guardi all’affiamento dei due giovani protagonisti), ma perché, coi loro corpi devono davvero rendere credibile la nuova corporalità dei comprimari meccanici (e dello sfondo nel quale alla fine tutti si muovono). E più che l’ancor brava Megan Fox è Shia Labeouf a doversi far carico di questo nuovo peso specifico dell’immagine con un’interpretazione divisa tra l’ironia dei primi piani e l’estrema carica ginnica di campi lunghi mai così pieni d’azione come in questo caso. Del resto Trasnformers è una fantasia tipicamente maschile ed in questa fantasia possono trovar spazio solo o donne robot (feticcio di una fantasia sessuale inconfessata ed inconfessabile) o madri o, appunto, fidanzate che potrebbero posare per un calendario di donne e motori (è così che fa la sua prima apparizione il personaggio), ma che poi alla bisogna sanno diventare eroine d’azione. E questa non è una novità per il regista di Armageddon che riesce nell’ardua impresa di riprendere la Fox nello stesso identico modo con cui aveva ripreso le grazie di Liv Tyler al punto da rendere le due figure quasi indistinguibili. Il resto del mondo può essere solo maschile: coi soldati pronti a combattere e coi compagni di college che sognano le donne a distanza. Incredibile che Labeouf sia in grado di dare credibilità a personaggi forse fotograficamente più realistici, ma sbozzati ancora come ritagli da fumetti di supereroi con poche macchie e tanta voglia di normalità.
(Transformers - The revenge of the fallen); Regia: Michael Bay; sceneggiatura: Ehren Kruger, Alex Kurtzman, Roberto Orci; fotografia: Ben Seresin; montaggio: Roger Barton; musica: Steve Jablonsky; interpreti: Shia LaBeouf, Megan Fox, John Turturro, Rainn Wilson, Josh Duhamel, Tyrese Gibson, Isabel Lucas, Matthew Marsden, Ramon Rodriguez; produzione: Paramount Pictures, DreamWorks SKG, Di Bonaventura Pictures, Hasbro, Tom DeSanto/Don Murphy Production; distribuzione: Universal Pictures Italia; origine: USA, 2009; durata: 144’
