TU CHIAMAMI PETER

Stephen Hopkins, nel pensare, sognare e infine dirigere il suo film su Peter Sellers, deve essere partito da una considerazione di fondo che, in corso d’opera, si è trasformata in un vero e proprio manifesto di poetica: per raccontare la storia del più grande trasformista della storia del cinema occorre un film che sappia essere a sua volta trasformista. Un film che sappia, in altre parole, trascolorare da un registro stilistico all’altro con la stessa semplicità con cui si cambia una maschera e che non abbia paura di cavalcare ironicamente sul vuoto di una totale perdita di identità personale. Un’opera che sappia essere, insomma, pirandellianamente una, nessuna e centomila, un film compendio tutto rivolto verso un’ideale di leggerezza profonda e assolutamente insostenibile. Se la forma deve essere sempre uno specchio ideale di quel contenuto che va a veicolare, allora, un film dedicato al grande attore inglese non può che essere un collage pazzo, indiavolato, frenetico e a suo modo lucidamente confuso su quel confine labile che sempre intercorre tra Arte e Vita. Pensare a The life and death of Peter Sellers (ci garba poco il titolo dell’edizione italiana che non si vergogna di sovrapporre alle voci di Geoffrey Rush che rincorrono quelle del grande comico quella più modesta seppur volenterosa di Pino Insegno) come ad un classico biopic ci porta fuori strada perché il film è prima di tutto una sorta di piccolo trattato formale di estetica cinematografica, un gioco speculare che solo apparentemente mette al centro del proprio discorso la biografia di un uomo illustre, solo fugacemente ci dice dell’impossibilità di penetrare davvero nei misteri dell’esistenza di un uomo eccezionale, e fissa tutta la sua attenzione su se stesso e sul processo comunicativo che mette in campo. Stephen Hopkins usa, insomma, il suo Peter Sellers per parlare di Cinema, per raccontare di un mondo dorato di apparenze, di immagini fugaci ed eterne al tempo stesso, di figure così potenti da imprimersi non solo sulla retina degli occhi degli spettatori, ma anche nelle loro coscienze e nei loro stessi sogni. Anche se, per rispetto al dettato biografico comunque implicito in un’operazione di questo tipo, il film finisce per raccontare molto del mondo del cinema del suo glamour e delle sue dorate contraddizioni, non per questo dobbiamo credere che esista, alla fine, una volontà oggettiva a guidare la composizione di quel complesso arazzo di luci e colori che alla fine è il film. L’oggettività della storia non interessa minimamente Hopkins, i dettagli realistici, i momenti più scopertamente biografici servono solo come spunti per costruire amorosi link con una biblioteca virtuale di opere filmiche che è al tempo stesso personale (i film che il regista ama) e universale (i film che tutti noi conosciamo). Ecco, allora, che per raccontare del primo incontro tra Peter Sellers e Stanley Kubrick, che avviene nei corridoi immaginari di un albergo tappezzato di rosso, il regista accetta di perdersi in geometrie ambigue che volutamente cercano un’ideale mimesi con il mondo visivo di Shining. Ed ecco spiegato il ricorso ad una messe di citazioni interne che ibridano in una ridda forsennata e geniale momenti di 2001: a space odissey con Doctor Strangelove per raccontare il primo infarto che colpisce l’ancor giovane comico. E fermiamo il nostro raggio d’azione solo sulle più visibili ibridazioni kubrickiane tacendo di tutti gli altri momenti in cui il film indossa le maschere di altre pellicole in un gioco speculare infinito che è superficiale e al tempo stesso molto profondo. Certo, spesso, il gioco mostra la corda e l’ammiccamento comincia ad apparire troppo gratuito o superfluo, ma è come se il regista, di fronte al mistero insondabile di un uomo (quello della scena finale in cui Peter Sellers nega l’ingresso delle telecamere nella sua roulotte in un ironico ammiccamento al celebre “No trespassing” che chiude Citizen Kane di Orson Welles) preferisca prendere la strada del gioco, dello sberleffo liberatorio che negando finisce per rivelare. Un piccolo miracolo dell’Arte soprattutto in considerazione che siamo di fronte ad un film per la televisione.
(The Life and Death of Peter Sellers); Regia: Stephen Hopkins; sceneggiatura: Christopher Markus, Stephen McFeely; fotografia: Peter Levy; montaggio: John Smith; musica: Richard Hartley interpreti: Geoffrey Rush, Charlize Theron, Emily Watson, John Lithgow, Stanley Tucci; produzione: Simon Bosanquet per Hd Vision Studios, Home Box Office, Company Pictures, Bbc Films, Demann Filmed Entertainment, Labrador Films; distribuzione: Lucky red
[Agosto 2005]
