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Tulpan – La ragazza che non c’era

Pubblicato il 27 aprile 2009 da Marco Di Cesare


Tulpan – La ragazza che non c'era

Tu uomo lavorerai con gran sudore e tu donna partorirai con gran dolore.

Nel film del regista kazako Sergey Dvortzevoy, vincitore del premio ’Un Certain Regard’ a Cannes 2008, vi è una sorta di lotta tra Terra e Cielo, dove la condizione umana è presa per quello che è - come afferma anche la Genesi – stretta in mezzo tra la capacità di pensare a una possibile via di fuga nell’improbabile, a un’età aurea, e l’accettazione della caduta dentro la sua essenza più terrena, come in uno scontro tra il vecchio e il nuovo. Tutto affrontato assieme a un sorriso largo, però, che può contenere qualsiasi emozione, comprese la sorpresa e il piacere di chi guarda e si lascia prendere da una pellicola così pregevole.
Asa (Askhat Kuchencherekov) è un giovane uomo kazako appena tornato dal servizio militare in marina, ospitato sotto la stessa tenda dove la sorella Samal (Samal Esljamova) vive col marito Ondas (Ondas Besikbasov) e i loro tre figlioletti, dentro quel Nulla che si chiama ’steppa’, natura matrigna e affascinante. Passato indenne tra i pericoli della vita militare – soprattutto l’incontro con piovre giganti, almeno a sentire i suoi racconti, che nascondono qualcosa di mitico – Asa dovrà dimostrare a sé stesso e agli altri di essere veramente un uomo: e, secondo il cognato, pastore nomade, un uomo, per sopravvivere in quei luoghi, deve avere accanto a sé una donna, qualcuno che lavori in casa e lo aiuti - quasi a voler completare quello che la Genesi non avevo detto sul ’ruolo’ completo della donna... - mentre lui è fuori nella steppa. La scelta di Asa ricadrà su Tulpan, l’unica ragazza in età da marito dell’intero circondario, un tulipano che si negherà alla vista sua e dello spettatore, di continuo rifiutando lo spasimante a causa delle sue orecchie a sventola, lei desiderosa soprattutto di andare a studiare in città, piuttosto che di accompagnare il ragazzo verso il sogno di tirare su un ranch (come lo definisce lui stesso, così preso da termini inglesi che provengono da un mondo lontano), spalleggiata da una madre che vorrebbe un futuro diverso per la figlia. Ma Asa non si perderà d’animo.
Tulpan è un racconto di formazione tra scene che si ripropongono sempre simili: è l’incontro tra il tempo del mito e quello della realtà, tra la linearità del progresso e la circolarità del presente continuo, simbolo di un Paese in via di sviluppo, in viaggio verso l’ignoto, un orizzonte comunque sterminato, stretto tra il vecchio e il nuovo, mentre poche erbacce riescono a sopravvivere nel deserto, brucate da greggi e mandrie sempre più affamate. E tutto in Tulpan assume i connotati materiali di un Eden molto terreno, un giardino inospitale dove ogni creatura è umanizzata e dove l’uomo, pur tra mille difficoltà, si sente maggiormente parte di un Tutto. Così possiamo assistere al parto difficoltoso di una pecora debilitata dalla fame, unica speranza dopo che molti agnellini sono morti, nonostante l’aiuto del loro buon pastore che ha cercato di rianimarli anche attraverso la respirazione bocca a bocca; oppure noteremo un cammello fasciato che siede mansueto nel carrozzino di un sidecar, accanto al veterinario che lo ha curato, mentre la motoretta viaggia così piano da non riuscire a seminarne un altro, abbastanza in salute da poterla seguire per chilometri e chilometri.
E l’Uomo, parte di quella Natura, è costretto ad adattarsi all’ambiente, fino ad assumere connotati nuovi: così Asa e Ondas possono essere ricoperti dalla sabbia fino a che i loro volti assumano un colore nuovo, un ocra nel quale è virato tutto il primo terzo della pellicola, e che ritroveremo anche nelle scene ambientate dentro la loro tenda, la quale visivamente si distingue nettamente da quella dei genitori di Tulpan, evidenziando in questo modo il distacco tra due mondi estranei.
Nel mentre il regista osserva, dividendo l’inquadratura in parti uguali, tra terra e cielo, evitando sempre l’utilizzo della musica extradiegetica, preferendo veicolare emozioni attraverso canzoni kazake cantate a cappella dalla voce dolce e sofferta della figlia di Ondas e Samal, per donare un senso di maggiore umanizzazione, senza alcun intervento di una voce esterna alle vicende raccontate, che significherebbe la presenza di un regista potenziale demiurgo, visto che non vi è il bisogno di creare un mondo, quando quel mondo è stato già creato. Mondo inospitale, ma nel quale ogni uomo può trovare il suo posto, libero di scegliere il proprio destino, preso tra il vecchio e il nuovo. Un nuovo che è lontano: come l’orizzonte, come la città con la sua modernità e le sue insicurezze, della quale forse non ci si può fidare completamente. Una meta remota come il 2030, l’anno in cui, secondo le previsioni di un ministro - voce distante che proviene da una radio - il Kazakhistan sarà la perla dell’Asia centrale. Così come da un’altra radio, quella dell’amico più caro di Asa - quello che sogna di fuggire in città - proverranno le note di Rivers of Babylon nella versione disco dei Boney M: «When the wicked / Carried us away in captivity / Requiering of us a song / Now how shall we sing the Lord’s song in a strange land», parole di una canzone che rappresenta una modernità di seconda mano, vecchia di trent’anni, ma anche l’ironia e il divertimento attraverso le quali leggere le peripezie di un popolo di nomadi, persi tra il passato e il futuro, ma sempre speranzosi di trovare la propria strada, da percorrere magari col sorriso disegnato in volto.


CAST & CREDITS

(id.); Regia: Sergey Dvortzevoy; sceneggiatura: Sergey Dvortzevoy e Gennadi Ostrovsky; fotografia: Jolanta Dylewska; montaggio: Isabel Meier e Petar Markovic; interpreti: Askhat Kuchencherekov (Asa), Ondas Besikbasov (Ondas), Samal Esljamova (Samal); produzione: Pandora Film, Cobra Film, Pallas Film, Producer’s Company Slovo, Kaz Export, FilmContract, ZDF-ARTE; distribuzione: BIM; origine: Germania, Svizzera, Kazakhistan, Russia e Polonia 2008; durata: 100’; web info: scheda sul sito della BIM.


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