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Tutto l’amore del mondo

Pubblicato il 27 marzo 2010 da Alessandro Izzi
VOTO:


Tutto l'amore del mondo

Il cinema italiano è morto?
La domanda, inquietante e dolorosa, ci sale alle labbra, con un principio di pianto, tutte le volte che abbiamo a che fare con un così detto “prodotto medio” della nostra sempre più ansante industria dell’intrattenimento. Altrove, a cadenza sempre più singhiozzante, frutti tardivi di passate stagioni ancora affiorano a far da presagio di una primavera spesso annunciata, sempre sognata, ma costantemente rimandata. I film di Garrone, di Crialese, di Costanzo o di Virzì ogni tanto baluginano nella notte come meteore distanti di un cielo senza stelle a far luce (fioca) su un paese tutte stalle. In questi film si parla di un’Italia che c’è e soffre con buona pace di tutti: il pubblico non accorre, la critica applaude a comando. Fine della storia.
Ad essere morti non sono senz’altro gli artisti. La vecchissima generazione ha smesso con fatica di sfornare pellicole amare: era ora visto che l’Italia non ha un vero ricambio generazionale dai tempi del neorealismo!
La generazione di mezzo tira fuori dal cappello registi del calibro di un Diritti che esordisce maturo e fa film che gli detta il cuore seguendo una cadenza d’altri tempi ed un ritmo tutto suo, imponderabile.
Poi ci sono i Salvatores o i Tornatore, forti di una certa fama che cantano le loro disillusioni in un paese che si accinge, nell’indifferenza generale, a tornare al nucleare.
Un panorama dolente di un cinema di qualità che non ha più un buon prodotto di serie B sul quale appoggiarsi e dal quale trarre linfa. Manca il serbatoio della grande commedia all’italiana, manca il film di genere che faccia da sacca per gli incassi di produttori sempre più preoccupati dal rischio e che preferiscono affidarsi ai divi di turno, alle pagine di Moccia o ai cinepanettoni sparsi per il globo.
Il film medio, un tempo pagina di spettacolo pregna di preoccupazioni, ma non distante dai botteghini, s’è fatto mostruoso e pigro. Si prenda ad esempio questo Tutto l’amore del mondo per rendersene conto.
Alle spalle del progetto c’è il carismo d’un piccolo divo: il Vaporidis che ha fatto centro solo con Notte prima degli esami e con fatica e col sudore sulla fronte cerca e anela ad una riconferma che non lo faccia essere meteora di una sola stagione e di un solo film. Davanti c’è l’idea di una storia semplice, lineare che parli delle cose che le adolescenti vogliono sentirsi dire: quanto è bello innamorarsi e quanto è consolante rinchiudersi nel rifugio di una coppia, ultimo baluardo individuale contro lo sfacelo del mondo che ci circonda. In mezzo c’è la metafora del viaggio che ci porta fuori per farci crescere dentro.
Solo che, e qui sta l’aspetto veramente mostruoso di queste pellicole (aspetto che in parte derivano dall’inarrivabile modello del cinepanettone), il viaggio, da qualche anno a questa parte, ha smesso di portarci fuori. Forse anche perché il nuovo modello di trentenne s’è fatto eterno adolescente che non vuole davvero crescere dentro.
Tutto l’amore del mondo non mette in scena un viaggio, ma una serie di tappe comandate. Dell’Europa racconta scorci di cartolina rubati da un chiosco informazioni. E non mette in scena lo sperdersi nell’alterità perché vive nella convinzione che tutto il mondo sia paese e che tutti si debba parlare la stessa lingua dei villaggi turistici con gli animatori che seppelliscono la noia sotto giochi dai ritmi forsennati e canzoni comandate. Le stesse che diventano colonne sonore di film come Tutto l’amore del mondo.
Per il resto è tutto un guardare al mondo in cerca di assonanze chiave. Non per capire, comprendere e vagliare, né per fare da specchio (come qualcuno voleva ai tempi in cui era di moda difendere i cinepanettoni) ad una realtà sempre più becera e compromessa sul modello televisivo, ma per trovare i gusti e le mode e per adeguarvisi allo scopo di essere piacevoli e, quindi, comprati.
Ecco: il prodotto medio è diventato una donna un po’ attempata che si vende sul ciglio di una strada. Si trucca e si atteggia per trovare clienti e non è detto che sempre ci riesca perché i chili di trucco spesso non nascondono il sorriso cinico del commerciante che cerca solo la clientela.
Ed è qui che, con dolore, battiamo i piedi dichiarando che non ci stiamo a questo mercimonio della cultura, a questa svendita di quella cosa che, chiamata cinema, si poteva, fino a qualche tempo fa, chiamare anche arte. Ma, lo sappiamo, è uno sbattere i piedi che non porta da nessuna parte. Perché forse, ci sorprende il pensiero con un brivido, il cinema italiano è morto per davvero già tanti anni fa.


CAST & CREDITS

(Tutto l’amore del mondo); Regia: Riccardo Grandi; sceneggiatura: Massimiliano Bruno, Edoardo Falcone, Andrea Bassi; fotografia: Maurizio Calvesi; montaggio: Consuelo Catucci; musica: Michele Braga; interpreti: Nicolas Vaporidis, Ana Caterina Morariu, Alessandro Roja, Myriam Catania, Eros Galbiati, Alessandro Mannarino, Sara Tommasi, Enrico Montesano, Sergio Rubini, Riccardo Rossi; produzione: Medusa Film e Maori Film; distribuzione: Medusa Film; origine: Italia, 2010; durata: 99’


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