Twilight portrait

Mappe di un degrado urbano e civile. Memorie compresse da un sottosuolo brulicante dolore e rifiuti. Ordinaria indifferenza. Queste le linee direttive che muovono Twilight portrait un film talmente proteso nella dimostrazione del suo assunto da dimenticarsi a casa contrasti e controluci.
In un mondo dove nessuno si ferma a dare una mano ad una ragazza che si è rotta un tacco ed incespicando avanza nel grigio stinto di un paesaggio urbano, non ci si può aspettare niente di buono, pare dirci la regista insistendo per tutta la parte iniziale del film sui passanti che cambiano strada o volgono altrove lo sguardo.
Il fuori fuoco diventa quasi un controcampo con direttive di sguarde pervicacemente negate. Sul primo piano la ragazza in difficoltà che è claudicante non tanto per il tacco in meno, ma per le ferite dell’anima, per l’insoddisfazione di una vita apparentemente agiata in realtà dominata dal vuoto delle apparenze. Sullo sfondo persone ugualmente insoddisfatte sembrano aver disimparato il significato di parole come solidarietà, soccorso ed empatia. Ovunque regna invece diffidenza, reticenze e sorrisi ipocriti.
La polizia non solo non aiuta, ma ferisce le persone cui prestare soccorso. Alle scrivanie il servizio pubblico è svogliato, pigro, indisponente. Ci vai per denunciare un furto e ti rispondono che han poca voglia di lavorare e sarebbe meglio denunciare uno smarrimento per compilare meno scartoffie. Le pattuglie che fanno la ronda girano per le strade non tanto a caccia di criminali, quanto di ragazzine da tirare in macchina con la scusa di un controllo per poi violentarle ripetutamente ed abbandonarle sul ciglio di una strada.
Storie ripetute della Nouvelle Vague russa che da un po’ di tempo a questa parte ci lancia allarmi su uno stato assente e su un degrado che puzza di alcool e piscio marcio, ma che in Twilight portrait tocca vertici di denuncia che altri film glissavano in esistenzialismo di stampo dostoevskiano.
Così qui accade che la ragazza di buona famiglia, con marito non proprio amorevole, ma neanche violento finisca violentata da un poliziotto che fa il suo mestiere perché la pistola gli dà uno status sociale e un senso di potere. Ripassando tutti i giorni sul luogo del delitto in una luttuosa ripetizione degli eventi della giornata infausta, la ragazza, che di mestiere fa l’assistente sociale e ha il difetto di prendere a cuore le sue cause invece di far mostra del sovrano menefreghismo di tutti, ritrova per caso il suo aguzzino. Lo segue fino a casa e, in ascensore, invece di aggredirlo col coccio di bottiglia che s’era portata dietro, gli fa un pompino. È l’inizio di un rapporto doloroso. D’amore, di quello vero, seppur compromesso nella patologia perché in fin dei conti nello stupro iniziale c’era stato un’autenticità che manca nelle feste di compleanno degli amici dove ognuno mette le corna all’altro. E i due dolori si riconoscono l’uno nell’altro, accettando di inseguirsi a distanza, quietamente. Tra mille contraddizioni.
Twilight portrait è forte quando stringe al primo piano, quando affida ai suoi attori, tutti bravissimi, la restituzione del dolore e del compianto. Spaventa quando allarga al campo lungo e chiude la sua storia nello sfondo. Spaventa perché dà l’impressione di esemplificare in cerca dello scandalo pur continuando a sembrare tenacemente vero.
(Portret v Sumerkakh); Regia: Angelina Nikonova; sceneggiatura: Olga Dihovichnaya, Angelina Nikonova; fotografia: Eden Bull; montaggio: Eduard Llyin; interpreti: Olga Dihovichnaya (Marina), Sergei Borisov I (Andrey), Roman Merinov (Lusha), Sergey Goludov (Valera), Anna Ageeva (Tania); produzione: INTERPROEKT; origine: Russia 2011, 105’; durata: 106’
