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Un amore a cinque stelle

Pubblicato il 20 aprile 2003 da Alessandro Izzi


Un amore a cinque stelle

C’è una domanda che aleggia per tutto il corso della proiezione, come un pipistrello impazzito il cui volo forsennato (solo a tratti celato dalla cura troppo gelida della confezione del film) getta sinistri bagliori sul senso ultimo di tutta l’operazione: esiste davvero una bugia detta a fin di bene? E lasciare, con il proprio silenzio, che l’interlocutore cui ci rivolgiamo dia per vera una cosa che sappiamo falsa è lo stesso che mentire spudoratamente? E’ questa la domanda che si pone, nel corso di tutta la pellicola, il personaggio interpretato da Jennifer Lopez: Marisa Ventura, una madre modello nonchè brillante cameriera d’albergo il cui unico difetto sembra essere quello di non avere sufficiente fiducia in se stessa (l’unico ingrediente, o almeno così pare, per far avverare il Sogno Americano). A cagionare l’amletica questione è il fatto che, dopo essere stata sopresa dall’uomo della sua vita mentre indossava clandestinamente civettuola lo splendido Dolce & Gabbana di una delle clienti dell’albergo presso il quale prestava servizio, ella non abbia fatto niente, come commedia impone, per impedire all’altro di pensare di stare parlando con una gran dama. Sulla base di questo equivoco i due escono, si incontrano, si inseguono, discutono e cadono, infine, entrambi trafitti dalla freccia di Cupido. Ma quello sorto immantinamente tra i due fu vero amore? O non fu, piuttosto, un tripudio di menzogne condite con lo sciroppo della commedia romantica newyorkese post 11 settembre (che è del tutto identica a quella precedente all’attentato salvo il fatto che nella cartolina che apre la pellicola, mancano, tragicamente, le due torri gemelle)? La domanda esistenziale, però (e qui sta il guizzo), si ribalta presto anche nel terreno della politica e comincia a complicarsi improvvisamente di ambigui segnali. Il protagonista maschile, infatti, è un abile politico in corsa per il senato ed è, quindi, un uomo che fa della menzogna il suo pane quotidiano, che sbandiera ideali che non sente propri pur di accapararsi un voto e che vive esponendo il suo volto ai flash dei più biechi paparazzi nell’idea di avere sempre una prima pagina da qualche parte. Beninteso, a conti fatti egli è un good guy che magari si era messo in politica animato dalle migliori intenzioni ed era stato, solo alla fine, travolto dal meccanismo sporco e dalle sue regole, ciònondimeno egli resta l’esponente ideale di un gioco perverso: ha ambizioni liberal, ma non conosce davvero i bassi fondi per cui dice di voler combattere, ha espressioni sincere, ma lascia che i suoi collaboratori rigirino la sua immagine ad uso e consumo della campagna elettorale. In un mondo che, come ci fa capire il piccolo lucido Ty, figlio di Marisa, ha perso, ormai, ogni vera divisione tra destra e sinistra (e qui l’America pare essere esattamente come l’Italia), il gioco delle apparenze diventa vertiginoso come un incastro di specchi infiniti. Strano sottotesto, questo, per un film che viene fuori da un Paese che ha l’opinione pubblica più manipolabile del mondo e che è riuscito, in un gioco di prestigio ammirevole, a dare il seggio di Presidente all’uomo che alle elezioni aveva avuto meno voti. Per chi conosce un po’ la grammatica del genere, comunque, è da subito chiaro che l’happy-end è proprio lì dietro l’angolo (tanto più che la sceneggiatura è un bieco ricalco, come fu ai tempi di Pretty woman della favola di Cenerentola), eppure questa aspirazione ad un certo realismo risolleva per un attimo le sorti di un film comunque dimenticabile. E quello di cui parliamo non è tanto un realismo scenografico (le riprese si svolgono tutte al vero Beresford Hotel di New York), quanto un realismo social-politico per cui lo stesso finale ricompositivo assume movenze grottesche non sappiamo quanto volute. La Lopez, è vero, riscatta il suo passato non eclatante avviandosi verso un futuro da first lady, ma nel far questo, sembrano dirci le copertine che ammiccano nel finale tripudio, non rinnega, in certo qual modo, quei sobborghi da cui proveniva e di cui si diceva fiera? Non cancella la sua essenza più vera per far parte di quel gioco di apparenze contro cui sembrava volesse porsi? Peccato, allora, che alla fine un tono da indulgenza plenaria soffochi il possibile odore di polemica che poteva essere insito in queste immagini. E noi, annebbiati dal fumo del bolso happy-end possiamo solo a distanza intravedere possibili soluzioni più significative: quella realista e un po’ melò in cui i due personaggi non si vedevano più per il resto della loro vita, e quella veramente eversiva e rivoluzionaria, in cui i due convolavano, sì, a giuste nozze, ma lei continuava, comunque, il suo lavoro da cameriera (che ha pur sempre una sua dignità). Così com’è, invece, il film resta una commedia sin troppo leggera che si lascia apprezzare solo per i peronsaggi di contorno (l’ottimo Ty di Tyler Garcia Posey e il superbamente manierato maggiordomo di Bob Hoskins).

(Maid in Manhattan); regia: Wayne Wang; sceneggiatura: Kevin Wade; fotografia: Karl Walter Lindenlaub; montaggio: Albert Wolsky; musica: Alan Silvestri; interpreti: Jennifer Lopez, Ralph Fiennes, Natasha Richardson, Stanley Tucci, Chris Eigeman, Tyler Garcia Posey; origine: Stati Uniti, 2002; produzione: Revolution Studios; distribuzione: Columbia Tristar

[aprile 2003]

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