UNA COSA CHIAMATA FELICITA’

Il film di Sláma si rivela “intimista” solo nelle intenzioni. Si intuisce infatti che lo scopo precipuo dei lunghi piani sequenza iniziali doveva esser quello di rivelare una qualche verità psicologica che un montaggio diversamente concepito avrebbe consapevolmente nascosto.
Eppure, procedendo nella visione, si cominciano a nutrire dubbi sulla funzionalità di quelle inquadrature così prolungate e avanzano i sospetti di una comoda gratuità, nient’affatto a disposizione della storia o dei moti dell’anima dei protagonisti. Non ci sentiamo cinici e insensibili nel prenderci la licenza di affermare che di fronte alla povertà e allo squallore della vita delle periferie ceche, rimaniamo impassibili e annoiati; la miseria delle bidonville, la sporcizia dei micro appartamenti, la lordura di Tonik, le stravaganze di Dasha ed il perenne grigiore del cielo, che soffoca le impervie strade di provincia, non suscitano in noi alcun sentimento di pietà o compassione: ci sentiamo troppo lontani dai personaggi creati dalla penna di Bohdan Sláma, qui anche soggettista e sceneggiatore, per poter compiangere la loro infelicità. Tonik, il protagonista della vicenda, è un giovane operaio segretamente innamorato di Monika, ragazza sognatrice ed altruista, in procinto di partire per gli Stati Uniti. Il destino li avvicinerà allorquando Dasha, l’altra veterana compagna di giochi, verrà ricoverata in una clinica psichiatrica e sarà costretta ad abbandonare i due figli piccoli: si costituirà un anomalo nucleo famigliare, precocemente sfaldato dal rinsavimento della madre depressa.
Il limite più evidente della sceneggiatura consiste nella prevalenza dell’attenzione descrittiva, a scapito dell’analiticità e dell’approfondimento psicologico dei personaggi: sembra che l’unico movente dell’infelicità debba essere ricondotto alle proibitive condizioni economiche in cui vivono gli amici e persino i loro desideri e le loro nevrosi non trovano giustificazione al di fuori di ragioni puramente materiali, in un film che, a detta dell’autore, avrebbe voluto interrogarsi sui quesiti filosofici di base. Appropriata è la scelta delle locations, dai desolanti quartieri popolari della periferia, alle fabbriche e ai cantieri arrugginiti, illuminati da una fotografia livida e algida, specchio impietoso di un’angosciante condizione esistenziale, cui fanno da sostegno le malinconiche sonorità di una chitarra solitaria e sconsolata. L’adesione alla dimensione universale del dolore e della sofferenza non può tuttavia passare solo attraverso questi codici linguistici e la primaria concentrazione su fatti ed eventi della storia sottrae spazio all’imprescindibile approfondimento psicologico di ciascun personaggio e alle sue interrelazioni.
Tra gli interpreti si distingue Anna Geislerova nel ruolo di Dasha (ma è anche la parte a consentire maggiori possibilità espressive), mentre Pavel Liska e Tatiana Vilhelmova non lasciano tracce significative nella memoria di uno spettatore annoiato e smanioso, frustrato dall’impossibilità di amare dei reietti scapigliati di cui non comprende a pieno il dramma del vivere quotidiano.
Ci attendiamo, in futuro, prove di maggior intensità da parte di un regista - qui al suo secondo lungometraggio - già candidato all’Oscar nel 2002 con Wild Bees come Miglior Film Straniero, e, per questo film, vincitore dei Festival di San Sebastian e Atene: speriamo siano di buon auspicio per le prossime sfide.
(Stestì) Regia soggetto e sceneggiatura : Bohdan Sláma; fotografia: D. Marek; montaggio: J. Danhel; musica: L. Sorbelman; scenografia: P. Pistek, J. Novotny; interpreti: Pavel Liska (Tonik), Tatiana Vilhelmová (Monika), Anna Geislerová (Dasha), Marek Daniel (Jára), Simona Stasavá (Soucková), Zuzana Kronerová (Aunt); produzione: Ceska televize, Pallas- Film Gmbh, Negative Ltd, Zweitess, Deutsches Fernsehen; distribuzione: BIM; origine: Repubblica Ceca - Germania; durata: 100’; web info: Sito ufficiale
