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Undine

Pubblicato il 29 settembre 2020 da Matteo Galli
VOTO:


Undine

Christian Petzold, che qualche giorno fa ha compiuto sessant’anni, aveva presentato per la quinta volta questo Undine in concorso al Festival di Berlino 2020: dopo Gespenster (Fantasmi) nel 2005, Yella nel 2007 (mai tradotti in italiano), La scelta di Barbara (2013) e La donna dello scrittore (2018) che invece in Italia sono arrivati come questo in programmazione anche nelle nostre sale. Se escludiamo i grandi registi del nuovo cinema tedesco ancora vivi e attivi (Kluge, Schlöndorff, Herzog, Wenders) Petzold, fra quelli della generazione successiva, è da considerarsi come uno dei più importanti, anche se a Venezia ci è arrivato una volta sola con Jerichow nel 2008 e a Cannes mai pur essendo piuttosto amato in Francia.

Specializzato con qualche eccezione su film al femminile (tutti i film citati a cui va aggiunto anche un altro film arrivato in Italia, ossia Il segreto del suo volto del 2014), stavolta come già nel film precedente senza la musa Nina Hoss ma affiancato dalla nuova musa Paula Beer, Petzold presenta con Undine un ulteriore film incentrato sulla figura di una donna e, per la prima volta, dopo essersi all’inizio rigorosamente tenuto alla larga dalla Storia e negli ultimi tre film esservi approdato, si arrischia nel terreno del Mito intrecciandolo tuttavia se non direttamente con la Storia come siamo abituati ad intenderla, con un altro tipo di storia, ovvero con le stratificazioni urbanistiche di una città, la città di Berlino. Siamo quindi in presenza di un classico caso di rinegoziazione del mito di Undine (mito tedesco e francese a un tempo con alle spalle una storia ormai corposissima di revisioni e rinegoziazioni soprattutto nell’800 e nel ‘900: la fiaba di De la Motte Fouqué, l’opera lirica di E. T. A. Hoffmann, fino ad arrivare a Jean Giradoux e al racconto di Ingeborg Bachmann poi musicato da Hans Werner Henze) e, al contempo, di una riflessione su Berlino città palinsesto, esemplata oggi soprattutto dalla ricostruzione, seppur parzialmente straniata, del castello degli Hohenzollern, sul viale storico di Unter den Linden: il castello bombardato durante la seconda guerra mondiale e poi fatto saltare in aria, nell’area dove durante i 40 anni della DDR verrà costruito il parlamento orientale (il Palast der Republik), anch’esso poi fatto saltare in aria, fino appunto all’attuale ricostruzione, con l’edificio, adesso definito "Humboldt-Forum" che verrà inaugurato nel corso di quest’anno.

La Undine di Petzold di mestiere fa proprio la storica della città e lavora per il Märkisches Museum, il museo della città di Berlino, e ai gruppi tedeschi e stranieri di queste cose parla in dottissime spiegazioni-conferenze. All’inizio del film Undine viene lasciata dal compagno Johannes e in omaggio a quanto prevede il mito che la vede protagonista, lei non può far altro che annunciargli che lo ucciderà, commossa ma perentoria. Poi invece le cose si mettono diversamente: Undine incontra in circostanze bizzarre un altro uomo Christoph (l’uomo urta un acquario e i due si ritrovano feriti e abbracciati inondati di acqua). Christoph, intepretato da Franz Rogowski, al pari di lei è legato all’elemento dell’acqua perché lavora come sommozzatore per riparare turbine subacquee. Fra i due scoppia l’amore, la passione, la dolcezza e la tenerezza. La missione che il Mito le impone sembra dunque obliterata, Undine vuole dunque ribellarsi al Mito. Ma poi, dopo una fase idilliaca, il Mito torna a chiedere ragione: Christian resta vittima di un incidente subacqueo che gli provoca la morte cerebrale, e allora Undine si risolve a compiere la vendetta su Johannes che l’aveva tradita riuscendo così a salvare l’amato che per così dire resuscita, salvo poi lei stessa, a quanto pare, a sua volta sacrificarsi scomparendo nell’acqua.

Punteggiato a guisa di leitmotiv da un concerto per cembalo di Bach, rifatto al pianoforte dal celeberrimo pianista Vikingur Ólafsson (il vecchio Petzold avrebbe usato solamente musica diegetica!), il film si muove, almeno da un certo punto in avanti, in una sfera sospesa fra realtà, mito, sogno e immaginazione. Già in Yella Petzold aveva ammiccato al genere del fantastico inducendo lo spettatore a domandarsi quanto in ogni scena ci fosse di vero, di immaginato, di sognato e non arrivando mai a chiarire fino in fondo i dubbi su quanto realmente accaduto. A questa modalità espressiva si contrappone invece, come si diceva, tutta la parte storico-culturale, tributaria di quel saggismo che Petzold ha imparato alla scuola del suo maestro Harun Farocki. Tuttavia: malgrado le ricche spiegazioni di cui Petzold è sempre prodigo in interviste e, oggi, anche in conferenza stampa, le due dimensioni non paiono saldate. Lo stesso vale per l’appendice, due anni dopo, con Johannes riaccoppiato e anzi futuro padre, ma ancora perseguitato da Undine di cui si sono perse le tracce.

Una volta di più Petzold dimostra di essere un regista di talento che pur essendosi nel corso di tempo “normalizzato” rispetto agli esordi, continua a disporre di uno stile formalmente impeccabile e riconoscibilissimo (del resto il regista lavora sempre con gli stessi collaboratori, fra tutti il fido direttore della fotografia Hans Fromm, qui cimentatosi in numerose riprese subacquee) ma di un talento in fondo incompiuto forse perché schiacciato da un eccesso di cerebralità, come già era successo ne La donna dello scrittore, rinegoziazione moderna di Transito, il romanzo di Anna Seghers. Oltre quel che si è già detto, ecco un altro esempio di questa cerebralità super-colta: Undine di cognome si chiama Wibeau, come Edgar il protagonista de I nuovi dolori del giovane W., il romanzo (poi anche film) in cui 200 anni dopo lo scrittore DDR Ulrich Plenzdorf rinegoziava il Werther di Goethe. Wiebau è un cognome ugonotto e Petzold sostiene che Berlino, città costruita sulla palude, sull’acqua, non abbia dei miti autoctoni ma che i miti siano giunti nella capitale prussiana solo attraverso gli Ugonotti, i francesi. Anche De la Motte Fouque era un nobile ugonotto, del resto. Come si vede: tutto molto, troppo complesso, tutto molto, troppo costruito. E finisce che a furia di complessità qua e là – "absit inuria verbis" – la sceneggiatura fa acqua.


(Undine); Regia:Christian Petzold; sceneggiatura: Christian Petzoldifotografia:Hans Fromm; montaggio: Bettina Böhler; interpreti: Paula Beer (Undine), Franz Rogowski (Christian), Jacob Matschenz (Johannes), Maryam Zaree (Monika); produzione: Schramm Film Koerner & Weber, Berlino origine: Germania-Francia2020; durata: 90’


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