Venerdì 13

Horror da rigattiere distratto, Venerdì 13 AD 2009 non aggiunge niente di nuovo al ripetitivo meccanismo del bodycount che sta alla base di qualsiasi slasher movie.
Il trionfo dei fluidi ematici che scorrono copiosi, l’esibizione continua della macellazione della carne, il rumore fratturoso delle ossa che si spezzano o dei crani che vengono affrontati dal machete come il coltello affronta il burro sono l’unico elemento di rilievo di una messa in scena che paga il suo tributo alle basse aspettative di un pubblico da multisala che non cerca né continuità narrativa, né coerenza psicologica, né, infine, originalità o pensiero.
Allo stesso modo l’esibizione del sesso, la logica perversa che soggiace alla visione del mescolarsi dei sudori e degli umori di attori intenti alle loro performance ginnico/erotiche è consequenziale ad un desiderio scopofilico che nelle nuove generazioni dei telefonini e dei padri/bimbi ha assunto connotazioni più spaventose dello stesso mostro con la maschera da hockey. Youtube, Netlog, Messanger hanno alzato le poste di una rappresentazione del sesso che sta gradualmente sostituendo il sesso stesso nell’immaginario collettivo. L’atto, oggi, viene consumato per essere filmato, alla sua base non c’è più l’istinto giusto dell’accoppiamento, ma la bieca manovra dell’autorappresentazione e dello spettacolo. E non è un caso che nel film le prestazioni sessuali dei quasi non più adolescenti (si è alzata appena un poco l’età media delle vittime) sono soggette allo sguardo di una videocamera balzellante e tanto abituale da aver perso quella connotazione indiscreta che eravamo soliti attribuirle fino a qualche anno fa. La performance è, quindi, falsa come lo sono le tette della screaming queen di turno che prima di girare ha fatto un salto dal chirurgo. Si brucia nello spazio di qualche ritmico movimento, qualche gridolino, un torso nudo, la discussione appena abbozzata sul fatto che si debba “venire insieme” e tante goccioline di sudore dietro le quali indoviniamo il lavoro di una solerte truccatrice che spruzza acqua sugli attori come fossero piante di una serra.
Parlarne in sede critica è come scoprire l’acqua calda, definirne la pochezza è come sparare sulla croce rossa in tempo di pace. Negli anni ’80 avevano un valore sociologico: erano espressione di un rifiuto dei canoni imposti dall’era reaganiana, erano simbolo di una sorta di controcultura che nasceva a basso budget, ma era largamente condivisa. Oggi sono esibizione di un meccanismo logoro che annoia sin dalla prima battuta. Stanno lì, nel corpo del film, perché lo vuole la regola codificata del genere, non perché espressione dello spirito di un tempo.
Neanche la battutina autoconsapevole (“Siamo solo dei cliché riuniti insieme" dice ad un certo punto l’orientale poco prima di essere sgozzato) solleva le sorti di un film mortifero nel senso più deteriore del termine. C’è già passato Scream di mezzo e abbiamo tutti visto a che esiti vertiginosi possa arrivare la metareferenzialità del genere che pensa a se stesso mentre si esibisce.
Marcus Nispel, dopo il The Texas Chainsaw massacre per le nuove generazioni, si confronta con l’accezione più negativa del verbo remake. Il suo Venerdì 13 rifà il modello (mentendo: ad essere rifatto è il secondo capitolo con qualche spruzzatina del terzo e non il prototipo) senza mediazione alcuna. L’aggiornamento al gusto corrente è nelle suppellettili e non nella sostanza: GPS, telefonini a gogò, SUV e antenne satellitari prendono il posto che loro compete a fianco alle vittime designate, senza aggiungere niente.
L’unica relativa novità della confezione sta tutta in Jason: non più automa zombie dai movimenti goffi ed inesorabili, ma atleta a tutto tondo. Nel film lo vediamo correre e saltare e gli indoviniamo anche un po’ di fiatone sotto il petto nerovestito. Non più simbolo di morte, l’assassino s’è fatto trentenne deforme, ma dai muscoli tonici. Poteva essere il preludio per un nuovo angolo dal quale affrontare il personaggio, ma è stato appena un sasso lanciato per poi nascondere la mano.
Sicché il film annaspa nel suo ripiegamento supino al niente. È un horror da rigattiere, dicevamo, e l’unico lavoro del regista è stato quello di far visita alla soffitta colma di cianfrusaglie da modernariato di un genere che ha dato esiti migliori, se non altro più onesti. In questa soffitta, uguale a tutte le altre, ritroviamo la solita luce marcia, le solite sedie a rotelle appese alle pareti, i soliti soldatini di piombo senza una gamba e le solite bambole senza occhi. Simboli di un’età dell’oro perduta cui guardare con nostalgia inesausta. Uguali anche ai cunicoli sotterranei, da cava mineraria ottocentesca, che accettiamo a fatica di trovare sotto le baracche di un vecchio campeggio in disuso.
Ma si sa: la verosomiglianza non è mai stato il punto di forza dei post moderni senza fantasia! E con questa consapevolezza non ci resta che chiudere i conti con un film che, speriamo, non sia capace di riprodursi in altri cloni di cui nessuno davvero sente l’esigenza.
(Friday the 13th); Regia: Marcus Nispel; sceneggiatura: Damian Shannon, Mark Swift; fotografia: Daniel Pearl; montaggio: Ken Blackwell; musica: Steve Jablonsky; interpreti: Amanda Righetti, Danielle Panabaker, Derek Mears, Jared Padalecki, Travis Van Winkle; produzione: Crystal Lake Entertainment, MTV Films, New Line Cinema, Paramount Pictures, Platinum Dunes; distribuzione: Universal Pictures; origine: Usa, 2009; durata: 99’; webinfo:Sito ufficiale
