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Venezia 59 - London orbital

Pubblicato il 22 settembre 2002 da Alessandro Izzi


Venezia 59 - London orbital

La piattezza e la freddezza della fotografia digitale per raccontare la non-storia di un’autostrada (la londinese M25) che ripete costantemente il suo inutile ed infernale giro di traffico intorno alla città congestionata. La ricerca costante dell’immagine simbolo che possa essere capace di descrivere, in un solo colpo d’occhio infinito, l’orrore urbano di un’immensa opera d’ingegneria civile che non é stata capace di compiere ciò per cui era stata concepita. La non-visione, elevata al rango di vera e propria categoria estetica, che conduce direttamente all’insostenibile pesantezza della noia: unico elemento prevedibile di un futuro altrimenti sfuggente ed indistinto. Sono questi gli elementi che fanno la poesia di un’opera come London Orbital: un dissacrante pamphlet in versi\immagine di quelli cui un autore come Chris Petit ci ha da tempo abituati. In una ricerca che vuole coniugare il furore (ma quel furore freddo e calcolato di una vendetta servita gelida sul piatto dello schermo cinematografico) del cinema d’impegno sociale e civile con le estenuanti ricerche dei cinema e del video d’avanguardia. Ed é proprio in questo indissolubile connubio tra ricerca e denuncia, tra teoria e requisitoria che si annida tutto il fascino di un’opera/video come questa in cui l’occhio dello spettatore si trova kubrickianamente spalancato-chiuso di fronte ad immagini che non raccontano, rimandando infinitamente la loro dolorosa incapacità di dare un senso comprensibile al mondo che lo circonda. La moltiplicazione dei punti di vista serve, allora, essenzialmente a mostrare questo inesausto sforzo di dare un senso ad una realtá, come é quella del viaggiatore che si trova a percorre la terribile autostrada, che sfugge ad ogni possibilità di decifrazione e di comprensione. Perdono, quindi, d’importanza (ma, incredibilmente non diventano neanche un mero sfondo) tutti gli elementi di una violenta critica alla politica dissennata (Tatcheriana) che ha portato, con tutti gli infiniti connubi con la malavita che sono sempre il sale necessario a siffatte operazioni, alla creazione di questa incredibile mostruosità, ed assumono valore i viaggi nella metafora assoluta del non senso contemporaneo che la strada finisce per portarsi dietro. Di fronte all’astratto ripetersi di inquadrature sempre uguali che raccontano la perdita di coscienza che il guidatore prova di fronte all’altrettanto disorientante ripetersi dei paesaggi della strada, quello che resta, nello sguardo dello spettatore, é solo un senso di smarrimento che le voci narranti degli stessi autori palesano con parole che hanno il sapore di una nuova poesia del grigio e del cemento. La loro volontà di non cantare con le immagini acquista allora il valore di una sapiente requisitoria contro una realtà che il cinema non riesce a cogliere con gli elementi della sua grammatica e del suo linguaggio. Perché l’inquadratura non é in grado di restituire fino in fondo l’orrore della piattezza della M25 e, il montaggio (che, comunque, restituisce sempre un senso ejzensteiniano alle varie sequenze che va accostando\urtando) non riesce a donare un senso convincente e credibile a ciò che non potrà mai avere un senso convincente e credibile. Da queste premesse viene fuori un video che restituisce tutte le contraddizioni della M25 che, nel suo giro dannato chiude la città nel suo anello tolkieniano arrestandone il suo naturale flusso sanguigno. Un’opera non potentissima come altre realizzazioni dello stesso regista, ma che ha l’incredibile pregio di condurre consapevolmente lo spettatore nei recessi dell’insostenibile angoscia di un tempo chiuso. Un film noiosissimo e, proprio per questo, bellissimo.

(London Orbital (M25)); Regia: Chris Petit, Iain Sinclair; origine: Gran Bretagna 2002

[settembre 2002]


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