Venezia 59 - Mon Huan Bu Lo/Sogno tribale

Mon huan bu luo, letteralmente “Il sogno della tribù”, rappresenta la sospirata trasposizione su pellicola del lungo periodo trascorso dal regista Chen Wen-tang sulle montagne, osservando e registrando la vita degli aborigeni Atayal, la fascia più umile della società taiwanese, riprese confluite successivamente in una serie di documentari etnografici. I ritmi e le tradizioni di una tribù ancora estranea alla realtà metropolitana, legata ai cicli naturali, agli eventi atmosferici e alle suggestioni quasi mitiche dei campi di miglio, avevano ispirato al regista lo sceneggiato The Poet and A-de, dal quale Wan Jan aveva tratto Connection by Fate, presente a Venezia nel 1998. Gli echi della produzione documentaristica sembrano ancora vivi in Mon huan bu luo, che, attraverso le due storie, unite dal filo sentimentale della nostalgia e del ricordo, dell’aborigeno Watan e del giovane drop out Xiao Mo, racconta il difficile rapporto tra sogno (i colori e gli odori della campagna dagli Atayal) e realtà (la grande città, gli squallidi centri telefonici nei quali avvengono gelidi incontri sessuali). L’esile raccordo fra le due vicende è l’amore di Watan per una donna sfuggente, ombra idealizzata che ricompare, con movimento circolare, nell’esistenza di Xiao Mo. La ricerca della passione perduta che porta, con forza centrifuga, a fuggire dal villaggio e a farvi ritorno nel finale è il pretesto poetico per esplorare, più che la condizione degli aborigeni, quella indefinita dell’esule in patria, la malinconia dell’assenza, la rassegnazione e l’intima insoddisfazione. Unica cura possibile, per quanto instabile, il contatto con la natura incontaminata: la visione del campo di miglio che percorre tutto il film. Il tono forzatamente elegiaco che sposta l’attenzione dal ritratto etnografico al racconto a tesi sembra allontanare, almeno temporaneamente, l’impressione di incompiutezza di una sceneggiatura a volte debole ed incongruente, giocata sull’evanescenza delle sensazioni, perfettamente restituite da una elegante fotografia. Le lacune vengono rivelate però inesorabilmente dall’evidente imbarazzo del regista nei raccordi narrativi, da indecisioni che si traducono in (troppi) tempi morti. Peccato: il discorso sulla perdita di sé, che tanto cinema taiwanese sta di recente cercando di analizzare, avrebbe meritato forse di più.
[4 settembre 2002]
Cast & credits:
Regia: Chen Wen-tang; interpreti: Yu Lao Yu Gan, Mo Tsi-yi, Wu Yi-tin; origine: Taiwan 2002; durata: 93’.
