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VENEZIA 62 - COMMENTO AI PREMI

Pubblicato il 11 settembre 2005 da Giovanni Spagnoletti


VENEZIA 62 - COMMENTO AI PREMI

Una volta, per esempio negli anni Settanta, il cinema più interessante ed innovativo veniva dalla metà dell’Atlantico, in una feconda interazione di scambio culturale tra newcomer americani (Scorsese, Coppola, ecc.) ed europei (Bertolucci, Wenders, ecc.). Oggi invece sembra giungere dalla metà del Pacifico come dimostrerebbe in modo esemplare il Leone d’oro a Brokeback Mountain del regista taiwanese-hollywoodiano Ang Lee. Resta da vedere, però, se questa nuova forma di meticciato che nella Venezia del sinologo Marco Müller appare naturalmente di casa, darà luogo ad un nuovo filone d’autore (o se si preferisce di qualità), oltre dunque a quel cinema di genere d’altissimo livello che lo stesso Lee o ancor meglio John Woo hanno già provveduto ad introdurre. E comunque pur considerando gli indubbi pregi di questa inedita epopea western (che però avrebbe fatto inorridire il buon Sam Peckinpah) nonché il valore simbolico della massima vittoria alla Mostra di un film esplicitamente gay (Franco Grillini ha esultato, il ministro Buttiglione probabilmente meno), si è trattato di una soluzione di compromesso per risolvere un’impasse insanabile all’interno della giuria. Come è stato scritto e proclamato da tutti, l’alternativa era tra Good Night, and Good Luck di George Clooney - un film che ha messo d’accordo tutti: pubblico, cinefili e persino i critici che gli hanno accordato il prestigioso Premio Fipresci, un unicum veramente inconsueto! - e Les amantes réguliers (Migliore regia - è la seconda volta dopo il 1991, ma anche Osella per la splendida fotografia bianco&nero di William Lubtchansky) del francese Philippe Garrel, straordinario esempio di permanenza “vague” nel terzo millennio. E così tra i due partiti ha vinto, come di pragmatica, il terzo incomodo. A George Clooney, l’unica vera e incontrastata Star della Mostra di quest’anno, è toccato fare buon viso a cattiva sorte e incassare “solo” un doppio premio di consolazione: quello per la sceneggiatura (insieme a Grant Heslov) e la Coppa Volpi per il suo protagonista, l’eccellente David Stratheim. George, che è un autentico signore della vecchia scuola alla Cary Grant, ha ringraziato contento, forse perché ormai irretito dalle chimere del sole mediterraneo (o meglio del lago di Como dove ha casa). Altra soluzione di compromesso - anche qui palese e dichiarata - per quel che riguarda la migliore interpretazione femminile. Pareva indispensabile che l’Italia ricevesse un premio significativo (d’altronde che ci stava a fare un presidente italiano?) dopo le delusioni, seguite da innumerevoli polemiche, degli anni scorsi (leggi Bellocchio e Amelio). Perciò - facciamo la nostra supposizione - si è scelto, visto il non competitivo livello dei nostri film in Concorso, di premiare un’attrice, campo in cui attualmente nel nostro paese è presente una buona ed interessante leva. Poteva forse essere la Margherita Buy de I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza - e sarebbe stato più plausibile - ma invece ha prevalso la pur brava Giovanna Mezzogiorno per il modesto La bestia nel cuore di Cristina Comencini. A ridimensionare, però, il tutto, dal capello magico della Giuria è comparso un abbastanza inedito “Leone speciale” ad Isabelle Huppert - come a dire la Ferrari contro la Fiat, con buona pace di tutti. Comunque, a parte il Premio Speciale della Giuria a Mary di Abel Ferrara - film che personalmente abbiamo detestato per il suo misticismo caotico ed irritante - il Palmares veneziano, con tutti i suoi (inevitabili?) equilibrismi, ha tenuto conto dei valori in campo. Ed è stato soprattutto lo specchio fedele di un’edizione, tutto sommato, riuscita, a cui però è venuta a mancare un pizzico di sale in più, il “turbo”. Si sono visti in Concorso e Fuori parecchi film medi, altri, invece, buoni senza, però, dei picchi particolarmente entusiasmanti - ma ciò, si dirà, non è tanto dovuto alla selezione quanto a quello che si trova in giro. Giusto, ma anche qui a voler discutere senza pregiudizi o punti di vista preconcetti, alcuni conti non tornano. Per esempio il numero spropositato di “Fuori Concorso” (spesso piazzati nella posizione della vecchia “Mezzanotte”) con una serie di titoli di cui non si avvertiva la benché minima urgenza espressiva o spettacolare in una Mostra che vuole restare, dichiarazioni del Direttore, uno spazio votato all’Arte cinematografica. Stesso discorso si può ripetere per “Orizzonti” che comunque con alcune opere molto azzeccate, in gran parte documentari (Herzog, Solanas) ma anche di fiction (Ning Ying), ha svolto abbastanza bene il suo compito. I disagi organizzativi dell’anno scorso sono, comunque, quasi spariti, malgrado la pioggia che ha minacciato di sommergere le esilissime strutture del Lido e l’apparato poliziesco, da campo di concentramento, palesemente inutile tanto quanto di facciata. Abbiamo infine l’impressione che il pubblico di addetti e no ai lavori, sia diminuito ma aspettiamo di essere smentiti dalle statiche ufficiali - tempi difficili, in ogni caso, per il cinema, come dimostra il pauroso calo di spettatori degli ultimi mesi. Nel complesso, dunque, il castello veneziano di Marco Müller fatto di patteggiamenti equilibristici con l’industria nazionale e il Potere ministeriale, di contrabbandi orientali, di astuzie palesi e di sinceri amori cinefili, ha retto. Non è il fantastico “Castello errante di Howl” certo, e qualcuno gli rimprovera, non senza una qualche ragione, mancanza di coraggio nell’indicare vie alternative all’esistente. L’anno prossimo, poi, si profilo lo spettro della concorrenza del festival romano di Veltroni. Che non diventi questo, finalmente, un deterrente perché qualcosa cambi veramente al Lido?

[11 settembre 2005]


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