X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



VENEZIA 63: SINDROME CINESE

Pubblicato il 10 settembre 2006 da Giovanni Spagnoletti


VENEZIA 63: SINDROME CINESE

Prodi viaggiatore in Oriente non avrebbe potuto fare di meglio. Amiamo la “sindrome cinese” che sembra aver stregato l’appena conclusa Biennale Cinema, numero 63. E non solo perché a pilotarla sia stato il direttore Marco Müller, noto sinologo e sagace conoscitore del miglior cinema contemporaneo, che in questa edizione ha potuto realizzare, libero da (temporanei?) impedimenti e pressioni, un programma il quale vuole rispecchiare in pieno la dizione - forse pomposa, forse presuntuosa, certo sanamente inattuale - portata iscritta a piene lettere dalla manifestazione sul Lido: “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica”. E siamo contenti che detta “sindrome” abbia contagiato una Giuria presieduta da Catherine Deneuve e composta da José Juan Bigas Luna, Paulo Branco, Cameron Crowe, Chulpan Khamatova, Park Chan-wook e Michele Placido, non certo sospetta di estremismo cinefilo. Si poteva certo scegliere differentemente trai i 22 film in Concorso per altro, molto lodevolmente, tutte opere inedite; tuttavia il Leone d’Oro a Sanxia Haoren/Still Life dell’outsider cinese Jia Zhang-Ke assai poco amato dalle autorità del suo paese, va, al di là delle opinioni di gusto su questo film estratto fuori a sorpresa dal cappello magico mulleriano, a proporre un’alternativa all’Esistente, un segnale “brechtiano” verso i nuovi ed incerti lidi del cinema d’oggi non hollywoodiano. E perché lamentarsi, poi, di riconoscimenti a grandi maestri-innovatori del “Nuovo Cinema” dei lontani anni Sessanta come Alain Resnais (Leone d’Argento - Premio alla Regia) per Private Fears in Public Places/Piccole paure condivise; oppure all’inossidabile coppia composta da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (Leone speciale per l’innovazione nel linguaggio)? C’è qualcuno che dubita ancora che si debba assegnare un Leone d’oro alla carriera a David Lynch anche a non amare alla follia il fluviale INLAND EMPIRE? O che la Coppa Volpi per la migliore attrice sia andata alla straordinaria “regina inglese” Helen Mirren per The Queen di Stephen Frears (premiato anche con l’Osella per la migliore sceneggiatura), uno dei pochi film che ha messo d’accordo tutti (o quasi)? Il Leone d’argento “rivelazione” all’interessante Nuovomondo del nostro Emanuele Crialese suona certo bizzarro nella dizione ma va comunque in una direzione giusta, quella di premiare un talento per altro già emerso con Respiro; così come il Premio speciale della Giuria a Daratt di Mahamat-Saleh Haroun con cui si vuole sostenere un cinema come quello africano in coma o quasi, bisognoso (ma senza carità pelosa) di aiuto e visibilità. Nel contesto di questo Palmares, melodioso e coerentemente in linea con le intenzioni del Direttore, la nota forse più dissonante è costituita dal riconoscimento a Ben Affleck (Coppa Volpi - migliore attore) per Hollywoodland di Allen Coulter - ma non perché la rievocazione della figura di George Reeves, mitico “Superman” del piccolo schermo degli anni Cinquanta, non sia efficace ma forse perché suona come un contentino nei confronti di un cinema più “di pubblico”, al pari dell’ Osella per la miglior fotografia a uno dei film più controversi del Concorso: Children of Men del messicano-hollywoodiano Alfonso Cuarón.
Passando ai Premi assegnati al cartellone di “Orizzonti”, anche qui la “sindrome cinese” ha colpito la giuria (Philip Gröning, Carlo Carlei, Yousri Nasrallah, Giuseppe Genna e Kusakabe Keiko) che ha deciso a sorpresa per uno film più nascosti e misteriosi della sezione: Mabei shang de fating/Courtroom on Horseback del debuttante Liu Jie mentre nessun dubbio può sussistere su When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts, l’eccelso documentario militante di Spike Lee. Infine i 100.000 € del Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” sono andati a Khadak dei belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, altra esplorazione poco rituale di una parte del mondo dimenticata da Dio e dagli Uomini, la Mongolia - un riconoscimento di prestigio, dunque, al buon lavoro complessivo delle “Giornate degli Autori”, la sezione indipendente della Mostra, da questo anno capitanata dal critico Fabio Ferzetti.
Se si aggiunge il cartellone della “Settimana della Critica” con la sua programmatica opera di ricerca nel campo dei debutti, non c’è che da uscire soddisfatti, pur con qualche (in)evitabile “bufala”, dal programma di Venezia 2006, uno dei migliori e più coerenti degli ultimi anni. L’argomento di chi afferma che i film vincitori non saranno mai visti ed amati dal pubblico, è tautologico e retrivo perché disconosce la funzione d’avanguardia di Venezia all’interno della divisione del lavoro dei grandi Festival internazionali e considera immutabile nei secoli il mercato esistente. Certo per chi ama il glamour e considera importante la promozione merceologica del cinema arcinoto (quello americano, ad esempio, che non ne ha nessun bisogno) quali assi portanti di una manifestazione cinematografica, avrà trovato poco pane per i suoi denti sul Lido - ma noi siamo di avviso radicalmente opposto ed apprezziamo gli sforzi in questa direzione di Marco Müller. Detto ciò, i problemi logistici, le carenze organizzative (compresi i fastidiosi ritardi nelle proiezioni) restano un’eterna piaga in un Festival provvisorio e baraccato nelle strutture come questa Biennale. A tale riguardo la forsennata polemica a distanza con l’imminente ”Festa di Roma”, i distinguo e le precisazioni politiche a riguardo potrebbero, paradossalmente, diventare utili alla Mostra, se le parole del ministro Rutelli sulla futura costruzione del Palazzo del Cinema non restassero un ennesimo flatus vocis e divenissero finalmente realtà. Di una nuova progettualità complessiva la Biennale Cinema ha oggi, più che mai, disperato bisogno - proprio per poter meglio sostenere un’idea di cinema aperta e lungimirante. E quindi non possiamo che far nostre le parole conclusive di Roberto Silvestri nel fondo del “Manifesto” di domenica 10, quando scrive: “se pasticci irresponsabili nel centro sinistra non distruggeranno, come pare, questo Festival, Venezia, salvata dai cineasti presenti e da nessun altro, sopravviverà”.


Enregistrer au format PDF