X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Venezia 75 - Blu - Orizzonti corto

Pubblicato il 8 settembre 2018 da Alessandro Izzi

VOTO:

Venezia 75 - Blu - Orizzonti corto

Su fondo nero, eleganti nel loro bianco asettico, i primi titoli ci introducono silenziosamente al film.
Sola eccezione, il titolo stesso. Tre laconiche lettere che quasi scompaiono nel vuoto oscuro che le circonda: B, L ed U.
Un’eccezione è confermata dall’ingresso in colonna sonora di un lungo accordo che si inspessisce dal pianissimo al forte, per poi ritornare nel silenzio con un tacersi contratto.

Poi, incongrue rispetto al titolo, le prime inquadrature. A dominare qui è, infatti, il rosso delle luci elettriche che illuminano più che i dettagli di un cantiere, un’impressione umida di primissima mattina.
Quindi pian piano prende corpo la definizione di un contesto, mentre la musica continua ipnotica a diffondere un senso di inquietudine, costante minaccia del silenzio.
Tra uno scorcio e l’altro si comincia a vedere qualcuno che si muove. Sono operai, con le loro tute arancioni e catarifrangenti. La musica ci lascia intendere che lavorano a un passo dal pericolo, in un’atmosfera di quieta post apocalisse, ma la loro occupazione è metodica e quotidiana. Dettata dalle agende della timbratura dei cartellini, dei saluti al sapore di caffè che resta tra le mani intirizzite, dagli sguardi di chi il sonno ha faticato a lasciarlo sul cuscino.
Ma sono impressioni che stanno nel campo lungo, tra gli scorci di un qualcosa che ancora sfugge alla nostra comprensione. Si intuiscono senza passare per la scorciatoia dei primi piani che renderebbero tutto d’improvviso chiaro e scontato.
Nelle prime inquadrature di Blu la sfida è raccontare il lato umano restando dalla parte delle macchine. L’immagine non isola figure e personaggi, ma concentra la sua attenzione sull’anonimato dell’esercito. E i soldati sono i lavoratori ripresi di spalle, a distanza, intenti prima ancora che all’esercizio delle rispettive funzioni, alla presa di servizio. Frattanto, al loro passaggio si riconoscono ingranaggi, scale, macchinari di cui si ignora ancora la funzione.

È il percorso dei lavoratori, in questa prima fase, a definire il senso di una progressione. Ed è una progressione verso il basso, nei meandri della terra. Più si scende, più la macchina da presa è tentata dall’idea di avvicinarsi agli uomini, ma sempre col timore che la vista di un volto distragga l’attenzione dello spettatore verso la storia del singolo, mentre qui a contare sembra essere una storia più grande e collettiva.

Quindi, dopo l’attraversamento di un tunnel, tutto comincia e il lavoro dei macchinari si confronta con la fatica delle persone.
Qui, proprio qui, si comincia a percepire la portata del piccolo miracolo che si sta avverando sotto i nostri occhi: la riscoperta della dignità del lavoro che passa nell’immediatezza dell’immagine senza ricorrere a parole.
Lo si capisce quando ci si accorge come non ci sia inquadratura di un macchinario, di uno scorcio industriale o di uno strumento che abbia senso di per sé. In Blu ogni cosa vista acquista il suo significato solo in rapporto alla figura umana che la attraversa, la usa o la gestisce.
Così mentre crediamo di trovarci di fronte a una sorta di remake di Metropolis di Lang in chiave documentaria, ci accorgiamo, al tempo stesso di un autentico ribaltamento di prospettiva rispetto a un modello così ingombrante. Perché se per Lang la visione dell’inferno industriale era la rappresentazione di una spersonalizzazione del lavoratore mortificato dallo sfruttamento e costretto in un ingranaggio più grande di lui, qui in Blu, invece, la percezione delle condizioni spesso inumane del lavoro, resta ancorata al racconto dell’esercizio di una volontà capace di bucare anche la roccia. E quando alla fine la dedica scritta ai lavoratori prende corpo anticipando i titoli di coda, si ha l’impressione che la progressione raggiunga il suo acme e ogni cosa assuma definitivamente il suo significato che non è più solo locale (la linea blu della metropolitana di Milano), ma universale. Se ciò avviene non è perché dal grembo della terra perforato dalle macchine che stanno aprendo il passaggio della metropolitana si torni agli spazi aperti della superficie, ma perché ogni azione che prima sembrava non avere una direzione comprensibile diventa di colpo chiara.

Un risultato così denso è reso possibile, e va sottolineato, dalla notevole formalizzazione del materiale girato. Blu è una vera e propria piccola sinfonia audiovisiva in più movimenti, capace di organizzare suoni e colori con una precisione millimetrica e di spezzare il portentoso crescendo che lo sostiene, con l’oasi straordinaria e rarefatta del laboratorio di analisi in cui lo spettatore è messo di fronte anche al rischio sanitario che devono affrontare gli sconosciuti eroi di questa piccola epica lavorativa. Soprattutto è la messa in immagine di un mondo che ci scorre accanto e, letteralmente, sotto senza che noi ce ne accorgiamo. Immagini invisibili nel senso più herzogghiano del termine.

Per tutti questi motivi Blu è forse la sorpresa più inaspettata in quest’ultimo scorcio di Festival. Un autentico gioiello.


CAST & CREDITS

(Blu); Regia: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti; fotografia e riprese: Massimo D’Anolfi; musica e sound design: Massimo Mariani; montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti; produzione: Montmorency Film in collaborazione con Rai Cinema; origine: Italia, 2018; durata: 20’


Enregistrer au format PDF