Venezia - Ying - Fuori Concorso
Ymou da più di vent’anni ci conduce in un mondo sempre diverso, sempre nuovo per noi occidentali, affascinante, sontuoso, visionario (da Sorgo rosso, 1987 a Lanterne rosse, 1991; da Non uno di meno, 1999, a La foresta dei pugnali volanti, 2004). Anche in questa nuova opera, Ying, che vuol dire ombra, il regista cinese pluripremiato ai festival (nella settantacinquesima edizione della mostra del cinema di Venezia riceve il premio Jaeger-LeCoultre), ci trasporta come su un tappeto volante in una magnifica reggia dalle velate pareti di carta di riso, sostenute da travi nere, a delimitare ambienti asettici, minimali, essenziali nell’estetica e nelle geometrie. Il segno del Tao, uno dei principali concetti nella storia del pensiero filosofico cinese - il cammino, il divenire di tute le cose - ritorna più e più volte nelle scenografie, nel décor, nelle linee perfette dei kimono, delle acconciature, negli interni come negli esterni. Girato come fosse un film in bianco e nero (pur non essendolo), con luci radenti, di taglio, talvolta quasi teatrali, i visi bianchissimi incorniciati in capigliature nero seppia, per quasi due ore assistiamo a vicende torbide di potere, intrighi amorosi (intensa la scena di amore tra l’ombra - una sorta di doppio di un personaggio - e la moglie di colui che l’ombra sostituisce). Gli scontri e le battaglie coreografate come in una danza plastica, disegni di cerchi volteggianti costituiti da ombrelli di lame rotolano per una discesa fino all’esercito nemico inconsapevole, in uno sfondo naturale paesaggistico suggestivo e magico. Una pioggia cosistente e persistente contribuisce l’aspetto della furia naturale contro la furia umana: molti combattimenti vengono resi ancora più difficili per via della scivolosità del terreno bagnato, dall’offuscamento della vista per via dell’acqua che scende senza tregua dal cielo plumbeo. Il potere offusca la mente i tutti, dei servi e dei padroni. Desiderio di conquista, figure tragiche, ferocia visionaria sono gestite dal sapiente regista come pedine in una scacchiera invisibile su cui camminano tutti, in pericolo costante di vita. Non ci si deve fidare di nessuno, questo il messaggio. Distinguere il vero dal falso rasenta l’impossibilità. In un gioco di specchi tra l’uno e il suo doppio, il bene e il male, la madre e il figlio, la ragione e il sentimento, l’yin e lo yang, due poli di attrazione e repulsione insieme, il frastuono delle spade, il gorgogliare del sangue che esce dalle viscere, gli schiaffi dei corpi schiantati sul selciato forniscono elementi di evasione, distrazione, in parte confusione nello spettatore che, dopo quasi due ore, esce dalla sala incerto sull’aver compreso tutti i passaggi ma colmo nello sguardo come dopo un balletto tragico o una pièce di teatro sperimentale: avvinto.
(Ying); Regia: Zangh Ymou; sceneggiatura: Li Wei, Zhang Ymou; fotografia: Zhao Xiaoding; montaggio: Zhou Xiaolin; musica: Zai Lao; interpreti: Deng Chao, Sun Li, Zheng Kai, Wang Qianyuan, Wang Jingchun, Hu Jun, Guan Xiaotong, Leo Wu; produzione: Perfect Village Entertainment; origine: Cina, 2018; durata: 116’