Friedkin uncut - Un diavolo di regista
William Friedkin è sempre stato un regista di rottura.
Mai integrato al sistema, sempre in qualche modo un outsider, sempre pronto a infrangere qualcuna delle regole non scritte dell’industria, eppure capace, contro ogni previsione, di sfornare alcuni dei più grandi successi planetari di tutti i tempi.
Al cinema ci arriva quasi per caso, dopo una lunga gavetta in televisione. E anche qui non è che trovi la strada spianata: all’inizio comincia a lavorare nello smistamento della posta e solo in un secondo tempo, scalando la vetta, comincia ad apprendere i primi rudimenti del linguaggio del cinema.
A differenza della maggior parte degli autori suoi coetanei, quindi, lui non si è formato a una scuola di cinema. Il mestiere lo ha appreso sul campo, ed è un mestiere ruvido, scevro da orpelli intellettualistici e, sin dall’inizio, affamato di realtà.
Poi l’esordio quasi per caso: si trova ad una festa di quelle a cui avrebbe preferito non andare e si siede vicino a un sacerdote. Ci chiacchiera. Del più e del meno. E scopre che presta servizio nel braccio della morte e che non pensa che proprio tutte le persone condannate alla sedia elettrica siano colpevoli. Anzi, proprio in questi giorni ha a che fare con uno che è convinto sia innocente.
È questo il punto di partenza di The People Vs. Paul Crump, primo documentario di Friedkin. Un film che, signore e signori, non vuole essere un semplice documentario, ma ha l’ambizione di cambiare il mondo. E di fatto riesce a far riaprire il caso e a sospendere e poi annullare una pena di morte che sembrava scritta sul marmo.
Il documentario a Friedkin nemmeno piace tanto, a dirla tutta. A rivederlo col senno di poi, confessa a un certo punto di Friedkin uncut, ci sono non pochi errori, ma è un primo passo già all’insegna di quella che sarà forse la cifra distintiva più continua di un cinema che si è espresso in tanti modi, cavalcando i generi più disparati: l’ansia di verità, il bisogno di restare coi piedi incollati sul Reale. Un bisogno, un’urgenza quasi, che resta centrale anche in un film come L’esorcista che è un horror, ma che, ci dicono un po’ tutti gli intervistati di questo film "all star", comincia piano, all’insegna del quotidiano.
Da qui ad Hollywood il passo è stranamente breve e Friedkin uncut ce lo racconta celandolo in ellisse. Non una parola quindi, sull’apprendistato ancora televisivo negli Alfred Hitchcok presenta, né un cenno ai primi film assegnatigli d’ufficio per testare il suo polso da regista. Si tace anche di Festa di compleanno per il caro amico Harold che, nel 1970, affronta di petto quel mondo omosessuale che poi sarà al centro di Cruising.
Esordi di poco interesse se li si paragona alla compiutezza assoluta de Il braccio violento della legge e del successivo L’esorcista che si prendono la maggior parte dello spazio di questa commossa e al tempo stesso ironica rievocazione di una carriera lunga e importante.
Poi in rapida successione ecco scorrere i titoli magnifici di un magistero grande. Tutto raccontato dallo stesso regista che sa raccontare così bene che spesso sembra prendere per mano lo stesso Francesco Zippel che è il fortunato regista di questo documentario niente male.
E, in fondo, è proprio lui, Friedkin, a condurre il gioco sin dal primo caffè che si fa, entrando in casa, quando il ciak ancora non l’ha battuto nessuno.
Friedkin uncut dura un centinaio di minuti, ma sembrano pochi tanto scorre bene davanti agli occhi del pubblico. Dice forse poco sul regista, ma moltissimo sull’uomo e sulle sue ossessioni. E aiuta a gettare una luce inedita su film che hanno segnato la storia del cinema in maniera profonda.
Soprattutto ci mette di fronte a un regista consapevole del suo lavoro che non si sperde in proclami di falsa modestia solo perché dice le cose semplicemente come stanno.
E non è bugia che i capolavori di Friedkin, come lui stesso afferma, sono prima di tutto espressione di un’urgenza di racconto che non scende a compromessi. Che non c’è politica o polemica nelle sue scelte di regista, ma solo bisogno di sondare fino a che punto ci si può spingere tra gli estremi assoluti di Hitler e Gesù. E che, in fondo, per ogni storia conta più di tutto il vero anche se questo comporta imparare a falsificare banconote o a far sfrecciare una macchina nel traffico vero di New York se questo è quel che succede nel racconto.
Solo per questo, e non per altro, guardare i suoi film più vecchi oggi è come aprire una capsula del tempo per ritrovarci dentro non l’atmosfera, ma la concretezza.
Di questo siamo grati a Friedkin uncut. Perché ci ha messo davanti un uomo anche se stava stampando un mito.
(Friedkin uncut); Regia: Francesco Zippel; sceneggiatura: Francesco Zippel; fotografia: Carlo Alberto Orecchia, Giuliano Graziani, Dado Carillo, Marco Tomaselli, Powell Robinson; montaggio: Mariaromana Casiraghi; musica: Costanza Francavilla; interpreti: William Friedkin, Ellen Burstyn, Gina Gershon, Juno Temple, Wes Anderson, Dario Argento, Samuel Blumenfeld, Damien Chazelle; produzione: Quoiat Films; origine: Italia, 2018; durata: 106’