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Vento di primavera

Pubblicato il 27 gennaio 2011 da Alessandro Izzi
VOTO:


Vento di primavera

Il piccolo polacco
della Stube tre
ha otto anni
E’ della sua età
saltare a piedi uniti
i morti della notte
ben allineati
fra due blocchi…

(Michel Jacques - Dachau)

I bambini, chiusi nel campo di concentramento di Beaune-La-Rolande insieme con le loro famiglie, giocano.
Giocano a “La retata”.
Il massimo della discussione è su chi dovrebbe interpretare l’ebreo.
In genere lo fa il bambino più piccolo, con qualche scorbuticheria. Preferirebbe, infatti, fare il gendarme francese che non è lì per salvare i bambini dalla deportazione, ma per assicurarsi che ogni giocatore ebreo sia assicurato al campo. Così i più piccoli cercano di spiegarsi il mondo, incomprensibile, che li circonda. Trasformando l’orrore della reclusione in una nuova versione del nascondino, riconsegnando ai ruoli una loro funzione ludica. Ogni maschera al suo posto e nel mezzo la corsa che possa essere liberatoria e il nascondersi che non dia l’angoscia.
Il senso più dolente di Vento di primavera è nelle piccole scene, nei dettagli minuti, in momenti apparentemente banali che danno la dimensione di un mondo impazzito. E al suo centro c’è il gioco.
Si apre vicino ad una giostra il film. Lì vicino c’è il piccolo Jo che guarda i cavallucci correre in tondo e i soldati, anche nazisti, che ci giocano come bambini. Lui, piccolo ebreo, non potrebbe neanche stare lì. La stella di David, gialla sul suo vestitino da scuola, è un biglietto per non giocare. Un soldato, che riprende tutto con una piccola macchina da presa, lo sorprende e ne ha soggezione. La macchina cinema tocca la Shoah nella sua dimensione più piccola e vulnerabile e se ne ritrae con sgomento. Le lenti si sono sporcate dell’incertezza di un bambino cui è negata la giostra che, invece, è piena, per paradosso, dei soldati e delle loro fidanzate per un giorno. La regista ha messo in immagine, qui, il suo pudore. Inseguirà per tutto il film questi bambini che correranno cercando di giocare all’olocausto per capirlo. Né lei, né loro ci riusciranno per davvero.

Più avanti i piccoli impersoneranno l’ebreo per raccogliere monete ad un bistrot. Nono, il più piccolo dei protagonisti del racconto, recita una poesia, davanti a nazisti che amoreggiano e si svagano. Farà quello che si aspettano da lui, dal piccolo ebreo che dice una filastrocca per pezzentare una monetina. E la scena finisce con un’acchiaparella di adulti che rincorrono bambini per punirli.

Il desiderio di capire…
La retata è cominciata e la mamma di Jo cerca di depistare i gendarmi francesi dicendo che il marito è morto per un embolo. Stanno partendo senza di lui, ma il piccolo non sa cosa sia un embolo e chiedendolo tradisce il padre, fa scoprire che è ancora vivo.

La fine dell’estate è anche la fine della sua innocenza. E di quella di bambini più piccoli di lui avviati ai forni. La prima delle tre estati raccontate in questo film. La seconda è quella dei politici francesi che contrattano sui tempi e modi della deportazione degli ebrei francesi. La terza è quella di Hitler a Borghof che fa festicciole e gioca coi bambini dei suoi collaboratori. La prima estate è il "campo", la terza il "controcampo", mentre la seconda è lo "sfondo", l’atto d’accusa alla connivenza francese alla Shoah.
Rose Bosch le racconta tutte e tre e per ciascuna ha un punto di vista nuovo. Il primo è quello della storia mai raccontata al cinema dei bambini di Beaune-La-Rolande (ma ce n’erano anche a Pithiviers ed in altri campi) e delle loro famiglie. Il secondo è quello di un Hitler ordinario e per questo doppiamente mostruoso. Il terzo è della Francia. Della Francia che fece tanto per aiutare e per salvare con atti d’eroismo individuale come quello dei pompieri che diedero acqua ai detenuti o di tanti anonimi e senza volto che aiutarono a scappare e a nascondersi. Della Francia delle croci rossine che si presero cura dei bambini sino alla fine non sapendo che il loro destino si chiamava Auschwitz. Ma anche della Francia che stilò le liste. Della polizia che arrestò. Del governo che collaborò.
Questa triplice partizione del materiale avvera un piccolo miracolo. In genere i film della Shoah, specialmente quelli americani, si limitano a dare il senso della portata della tragedia tramortendo lo spettatore in un senso di ineluttabilità che lo chiude in una passività dolorosa. Il pubblico guarda e ammutolisce, disfatto dall’orrore. Qui, invece, complice anche lo sguardo caldo dell’infermiera Annette Monod (Melanie Laurent, sublime), lo spettatore vede il film e sente crescere dentro di sé lo sdegno. E lo sdegno è il seme del cambiamento. Ti lascia con la responsabilità che qualcosa puoi fare perché ciò che è stato non si ripeta.

Rose Bosch costruisce un film lucidamente rabbioso. Imperfetto quanto si vuole, ma vero, che nasce da dentro e non cade nella trappola del melodramma fine a se stesso neanche nella scena in cui i genitori vengono separati dai bambini costretti a star da soli fino all’arrivo del treno successivo. Per giorni e giorni.
Si avvale di un cast sorprendente, con un Jean Reno calibratissimo e un Gad Elmaleh a suo agio (Rapahelle Agoguè, la mamma di Jo, perde nel doppiaggio tre quarti del suo valore). Ma soprattutto ha bambini perfetti con il piccolo Hugo Leverdez che ti si scolpisce nel cuore.
Ed è a lui che la regista concede l’ultima inquadratura. Tornato a quella giostra che gli era stata negata all’inizio, fissa i cavalli che gli sono negati adesso dal troppo dolore. Quegli occhi sono ancora sul gioco, ma si fissano nei nostri, ammonendoci di lontano.

Dissolvenza su nero.


CAST & CREDITS

(La Rafle); Regia: Rose Bosch; sceneggiatura: Rose Bosch; fotograia: David Ungaro; montaggio: Yan Malcor; interpreti: Jean Reno, Melanie Laurent, Gad Elmaleh, Rapahelle Agogué, Hugo Leverdz, Olivier Cywie, Mathieu e Roamin Di Concetto, Thierry Frémont, Sylvie Testud; produzione: Légende Films; distribuzione: Videa CDE; origine: Francia - Germania - Ungheria, 2009; durata: 125’

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