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Vento di primavera (Conferenza stampa)

Pubblicato il 27 gennaio 2011 da Alessandro Izzi


Vento di primavera (Conferenza stampa)

“Questo è un progetto al quale abbiamo lavorato almeno per una decina d’anni insieme ad Alain Goldman che probabilmente conoscete soprattutto per aver prodotto La vie en rose. La famiglia di Goldman viveva a Montmatre dove si svolge tutta la parte parigina della pellicola ed è, in effetti, sfuggita al rastrellamento del Velodrome.” esordisce Rose Bosch alla conferenza stampa di presentazione di Vento di primavera, prima pellicola dedicata alla memoria dei tredicimila ebrei destinati ai campi di sterminio nazisti, ma prima “parcheggiati” per un lungo periodo in alcuni dei duecento campi di prigionia francesi che erano, in tutto e per tutto, repliche in piccolo di quelli tedeschi. Forse è proprio questo primo dettaglio biografico a chiarire la passione storica che anima la regista e il suo film, “il bisogno di muoversi nella linea di un realismo assoluto. Volevamo che tutto quello che era raccontato nel film fosse assolutamente ed incontrovertibilmente vero, reale. Per cui ho cominciato un lavoro di inchiesta e di ricerca che per anni mi ha impegnato costantemente, dalla mattina sino alla sera, diventando per me quasi un’ossessione.” Poi sono accadute un paio di cose importanti. “La prima è stata che sono venuta a conoscenza di una persona, ancora viva, che, all’epoca dei fatti aveva undici anni (oggi ne ha ottanta) che poteva raccontare le cose come si erano svolte esattamente, da testimone. Questa per noi era una cosa molto importante perché ci stavamo rendendo conto che il nostro film stava radicalmente passando dalla memoria alla Storia e che dovevamo sbrigarci a realizzarlo prima che questo passaggio divenisse irreversibile. Poi abbiamo anche constatato che stavano uscendo diversi film ambientati nello stesso periodo, ma in nessuno di questi film si parlava o si raccontava la retata del Velodrome. Contro di noi lavorava il fatto che non esistono documentazioni fotografiche di quanto è avvenuto. Della retata esiste, infatti, solo una fotografia che inquadra gli autobus che erano stati utilizzati per trasportare i prigionieri al Velodrome, ma dopo che questi erano già stati internati nella struttura. Nella foto i mezzi sono, per questo, vuoti. Si tratta, quindi, di una storia per lo più sconosciuta.” Di tutto questo si parla appena. La regista rievoca le sue memorie scolastiche, le lezioni di storia e si stupisce del silenzio perdurante: “Nel libro di storia credo ci fossero appena tre righe su questa vicenda. Tre righe per tredicimila persone uccise. Quindi per noi era diventato urgente realizzare questo film. Anche perché non volevamo bruciare l’occasione di poter avere dalla nostra un testimone diretto, qualcuno che potesse rispondere a quelle persone che potevano dirci che magari stavamo esagerando i fatti che, no, le cose erano andate esattamente come le stavamo descrivendo”
Proprio sul versante storico si potrebbe dire che questo sia il primo film francese in cui sono presenti lo stesso numero di divise francesi e tedesche. Facile attendersi una certa ostilità del pubblico francese e, invece “Siamo rimasti particolarmente colpiti da come la pellicola è stata recepita dal pubblico francese. In realtà noi ci eravamo detti che la più rosea delle aspettative era quella di riuscire a coinvolgere un milione di spettatori, non molto di più. Invece lo sbigliettamento ci ha portato la cifra incredibile di tre milioni. Successivamente l’uscita del DVD ha confermato questa tendenza. Anzi i dati di vendita dei DVD sono stati sorprendenti visto che gli acquirenti superano di gran misura gli spettatori del film on demand, il che vuol dire che il pubblico ha dimostrato di preferire il disco, come una cosa da possedere e conservare. Un altro dato particolarmente significativo sta nel fatto che la maggior parte degli spettatori aveva un’età compresa tra i venti e i venticinque anni a dimostrazione che il pubblico francese, specialmente quello giovane, si rivela pronto a recepire un messaggio di questo tipo. In realtà i ragazzi non sapevano assolutamente nulla del Velodrome e sono, quindi, rimasti molto sorpresi nel venire a conoscenza di questa storia tristissima.”
La realtà della deportazione e del dolore degli ebrei non impedisce alla regista di concentrarsi anche sull’evolversi della storia e sui personaggi che resero possibile questa immane tragedia. Ecco, quindi, quasi a mo’ di controcampo, che si affollano immagini di Petain o dello stesso Hitler, sulle terrazze di Berghof, mentre di dichiara vegetariano (dettaglio, questo, centrale in Moloch di Sokurov) e gioca affabilmente coi bambini). Chiosa Rose Bosch: “Sono le tre diverse facce della stessa estate: quella di Petain che gioca alle corse, quella dei bambini che hanno appena finito la scuola e quella di Hitler. Una cosa che per me era chiara era che non volevo raccontare, con Hitler, il solito mostro. Non volevo il solito stratega chino sulle carte a pianificare le battaglie. Volevo raccontare il mostro ordinario, il mostro di tutti i giorni. Quello che fa festicciole sopra la terrazza, quello che si rivela amabile coi bambini degli altri, ma che è pronto a mandare i bambini ebrei ai crematori. Quello che fa il vegetariano, ma che al contempo riesce a trasformare in una vera e propria industria la morte. Erano questi i contrasti che mi interessavano. Non volevo farlo vedere nascosto, in chiaro scuro. Non so dire perché esattamente l’ho fatto, ma volevo mostrare il viso mediocre della mostrosuità.”
La rappresentazione di Hitler era funzionale al discorso del film, necessaria per far comprendere al pubblico che dietro le azioni della polizia francese c’era pur sempre la mano hitleriana. Ma per il resto il film è un chiaro je accuse alla connivenza francese del governo di Vichy e stupisce che la regista non abbia incontrato resistenze durante il preliminare lavoro di documentazione. “Non ho incontrato particolari resistenze. Del resto metto in scena anche l’eroismo di certa popolazione francese che di fatto si oppose alle retate. Non dobbiamo dimenticare che almeno diecimila ebrei riuscirono a sfuggire alla retata e, se ciò fu possibile, lo si deve alla collaborazione di civili che li ospitarono e nascosero. Non ho avuto, ad esempio, problemi a rintracciare documenti sui vigili del fuoco, dal momento che il loro capitano, eroicamente, riuscì a distribuire ai prigionieri del Velodrome dell’acqua e a portare fuori alcuni messaggi per amici e conoscenti. Problemi ne ho avuto semmai dopo il successo inaspettato del film, ma credo questo dipenda dal fatto che oggi si faccia una strana confusione tra il rispetto della Memoria e la questione isrealiano-palestinese e che, realizzare un film sui bambini ebrei uccisi nei campi equivalga, nella mente di molti, ad abbracciare posizioni filoisraeliane e a giustificare l’esistenza di Israele. Così Jacques Chirac, ex Presidente francese, ha scritto del mio film. Io non avevo idea che facesse il critico cinematografico. Un po’ di ostruzionismo, anche se non è la parola giusta, l’ho avuto dalla Croce rossa, nonostante il fatto che il film elegga ad eroina proprio un’infermiera. Non ho avuto accesso ad alcuni documenti. Mi si diceva che c’era stato un incendio. Poi un’inondazione e che le carte erano andate perdute. Ma non mi pare ci sia stata reale ostilità nei miei confronti”. Il che, per noi italiani abituati all’insabbiatura, appare cosa marziana. In questo film, infatti, non si nascondono le responsabilità nazionali. “Nel film c’è in particolare un personaggio che si incarica di preparare e portare avanti la retata: Bousquet. Una figura storica realmente esistita che, a fine della guerra non mi pare abbia sofferto molto e anzi lavorò in molte organizzazioni. Lo stesso Mitterand [che alcuni storici cominciano a considerare un possibile responsabile della lista dal momento che, al tempo era ancora nel governo di Vichy commenta un giornalista in sala] era passato alla resistenza soltanto nel 1942 e questo è l’anno dell’entrata in guerra degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica quando, cioè, le sorti della guerra stavano radicalmente cambiando. Ma quello che mi colpisce è che l’atteggiamento della Francia comincia ad essere quello di cominciare a tirar fuori i suoi scheletri dall’armadio. E bisogna farlo in fretta, prima che i testimoni dell’accaduto siano tutti morti”.
Questo per quel che riguarda la Storia, ma cosa ne pensa la regista degli scheletri di oggi? Di situazioni come le leggi che hanno causato l’espulsione dal suolo francese dei rom?
“Parlo da emigrata di seconda generazione. I familiari di mia madre erano, infatti abruzzesi, mentre da parte di padre veniamo dalla Spagna. E devo dire che certo questi provvedimenti mi hanno in certa misura sconvolta. Ma se guardo dentro di me in maniera spietata devo dire che, e so che la cosa che sto per dire potrebbe esser presa male, nel mondo di oggi l’emigrazione o immigrazione non è più una soluzione. Siamo nella realtà di Internet, l’istruzione ormai ognuno può farsela praticamente da solo e ne ha i mezzi. Oggi chi parte in cerca di fortuna, in verità, fa parte di una elite. Sono i più coraggiosi, i più bravi i più esperti di un dato paese ed è terribile che il paese debba perdere questa elite che, a mio parere, dovrebbe restare per cercare di migliorare le condizioni di vita di tutti. Questo discorso chiaramente non vale per i profughi e i perseguitati politici che abbiamo il dovere di accogliere nel miglior modo possibile”.
E qui si chiudono, in conferenza stampa, i riferimenti al presente. Prende parola Stefano Valabrega, vicepresidente della Comunità Ebraica di Roma, che, dopo aver fatto i complimenti alla regista per l’ottima prova, commenta: “In questo film si affronta per la prima volta, in maniera davvero esaustiva, il tema del collaborazionismo. Da italiano e da ebreo noto che di questo tema in Italia se ne parla poco.” Il discorso di Valabrega non può a questo punto non andare a Tullia Zevi di cui si stanno celebrando i funerali proprio oggi e il discorso si sposta sulla necessità del ricordo e sul bisogno di conoscere anche il proprio passato. “Se rivolgiamo ai nostri ragazzi delle scuole domande circa quello che è successo in quegli anni, le risposte ci danno da pensare. I ragazzi non sanno, non conoscono. D’altro canto, quelle volte che ho accompagnato le scolaresche nelle visite ad Auschwitz ho potuto constatare di come il solo dare loro la consapevolezza di quello che è stato e la loro commozione ci fanno tornare la voglia di essere su questa terra. E quindi mi auguro che il film passi per le scuole e sia visto da tutte le scuole perché c’è davvero bisogno che di questo si sappia. E mi auguro che questo film possa diventare un’ulteriore pietra per costruire questa nostra consapevolezza”.
E su questo bisogno di una memoria che sia anche esatta la regista dice parole profondamente commoventi: “Lo spirito con cui abbiamo realizzato questo film, tutti quanti noi, attori compresi, è stato un poco quello del volontariato. Per noi era una causa da seguire anima e corpo.” Basterebbe a dimostrazione il solo fatto che Melanie Laurent, ad esempio ha accettato il ruolo perché suo nonno era una dei bambini sfuggiti alla retata. “So che molti dopo aver visto il film dicono che io ho calcato un poco la mano, che ho esagerato con la messa in scena. In realtà la "messa in scena" è tutta dalla polizia francese. Le scene sono tutte reali. Quando vedete il bambino che corre nel campo verso i furgoni della polizia, quello è un disegno che noi abbiamo riprodotto. Quando si vede la piccola che da i fuoi alla guardia che la sta mandando a morte, quello è reale. Quando l’infermiera alza da terra l’orsacchiotto, quello è successo veramente. Anzi lei non ha preso solo un giocattolo, ma un’ottantina di giocattoli che ha conservato fino a che, anni fa, non ha organizzato una mostra di questi oggetti sfuggiti allo sterminio. L’unica cosa che io ho aggiunto solo le musiche. È lì che trovate la mia empatia con la storia, il mio spazio. Tutto quello che vedete, invece, è vero”


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