Verso gli Oscar: CRIP CAMP
Prodotto dalla Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama e reduce dal premio del pubblico al Sundance Film Festival 2020, Crip Camp (visibile su Netflix) ci schiude le porte di una realtà in gran parte rimossa dall’immaginario comune: il documentario ruota attorno alle vite di James LeBrecht, Judith Heumann, Larry Allison, Denise Sherer Jacobson e Stephen Hofmann, giovani idealisti ritrovatisi a condividere un’estate fra le verdeggianti pianure che circondano New York.
L’anno è il 1971, prima tappa di un decennio selvaggio e turbolento in fondo mai del tutto terminato. Affetti da disabilità e, in particolare, da un rassegnato torpore a cui l’infanzia e la vita sembra averli ormai abituati, gli adolescenti si ritrovano fra i prati di Camp Jened, sorta di Woodstock in miniatura pensata per donare ai suoi ospiti quell’autonomia e quel libero arbitrio che a casa appaiono irraggiungibili. A quasi cinquant’anni di distanza, le voci narranti si riaffacciano alla cinepresa di Nicole Newnham e di Jim LeBrecht, mescolando ricordi e ferite, quotidianità e leggenda: il campeggio si rivela per molti un vero punto di svolta, un idillio in cui assaporare finalmente la gustosissima banalità dei gesti più ordinari – come bere, fumare, cantare, ballare, giocare a baseball e rimanere svegli fino a notte fonda. Protetti da un mondo in continua evoluzione, i nostri protagonisti riscoprono uno spazio in cui raccontarsi senza mezzi termini: il retrogusto provocatorio del lungometraggio si nasconde, infatti, nella placida irriverenza con la quale ognuno rievoca il proprio passato e le cicatrici che da esso derivano. Lo sguardo dell’obiettivo ostenta una serenità tagliente, evitando così di sfociare nel cinismo o nell’ipocrisia. Gli intervistati ci mettono continuamente alla prova, condannando i motti farisaici di chi, pur giungendo dall’esterno, ostenta un’empatia in fondo evanescente.
Il film non si limita a riportare alla luce una battaglia ormai dimenticata (quella per una società civile accessibile a 360 gradi), ma s’interroga sul concetto stesso di limite, smembrandolo nelle sue innumerevoli sfaccettature e indagandone i diversi significati. Sarebbe banale, secondo LeBrecht e i suoi compagni d’avventura, parlare di confine soltanto in relazione al divario che si apre fra l’utopia del Camp Jened e il resto del mondo: c’è una gerarchia fra i disabili e i non-disabili, fra battaglie combattute davanti alle telecamere e guerre più intestine – come quella condotta da Judith, attivista per i diritti della propria comunità. E, a tal proposito, ci si chiede quanto sia lecito parlare ancora di comunità o se invece non sia il caso di donare al termine un’altra accezione, più aperta e forse in grado d’annullarne le tracce più dolorose. I toni ribelli utilizzati dai personaggi deridono con sottile furbizia lo spettatore medio, pronto ad inarcare le sopracciglia e ad assumere un’espressione grave, sbandierando l’indifferente sensibilità dietro alla quale si nasconde l’opinione pubblica. È proprio l’intelligente consapevolezza esibita dai ragazzi a coglierci in fallo: quando Judith, dopo settimane di occupazione fra San Francisco e Washington, ottiene un colloquio con due membri del Congresso, il teatrino burocratico crolla sotto il concreto pragmatismo della ragazza. E in fondo, per smascherare il disinteresse travestito da interesse, basta un’occhiata: le parole “gradirei che smettesse di fare cenni d’assenso, quando non mi sembra che capisca davvero ciò di cui parliamo” colpiscono, sebbene di striscio, perfino l’osservatore odierno.
In generale, Crip Camp si inserisce perfettamente nell’ondata di rabbioso entusiasmo con cui parte degli Stati Uniti scende ormai quasi quotidianamente per strada. L’epoca di LeBrecht non è poi così dissimile dalla nostra: gli scontri si somigliano, i volti si sovrappongono, i rapporti intergenerazionali ricominciano ad arrugginirsi, gli abissi spalancatisi fra governo e popolazione civile si fanno via via più profondi. Il documentario non si lascia guardare con grande facilità, ma ci pone in un fastidioso (e pericolosissimo) limbo emotivo: da una parte, ci si sente conniventi di un dispositivo sociale che ancora non funziona come dovrebbe. Dall’altra, ci si domanda come sarebbe meglio comportarsi per evitare l’imbarazzante ammiccamento che i senatori, anni or sono, rivolsero agli inquilini del Camp Jened. La pellicola (per fortuna) non ci degna di una risposta, lasciando forse ai perbenisti l’arduo compito di tracciare una bella e patinata morale.
Crip Camp - Regia: Nicole Newnham, Jim LeBrecht; sceneggiatura: Nicole Newnham, Jim LeBrecht; fotografia: Justin Schein; montaggio: Eileen Meyer, Andrew Gersh; interpreti: Larry Allison, Judith Heumann, James LeBrecht, Denise Sherer Jacobson, Stephen Hofmann; produzione: Higher Ground Productions; origine: USA 2020; durata: 108’.