Verso gli Oscar: ELEGIA AMERICANA
Non ha certo bisogno di presentazioni Ron Howard (67 anni) con alle spalle una filmografia di venticinque titoli e un Oscar per A Beautiful Mind, oltre a una carriera di favolosi incassi, fra tutti i film tratti dalle opere di Dan Brown. La sua ultima fatica, uscita nel 2020 e intitolata Hillbilly Elegy , in italiano più semplicemente Elegia Americana (visibile su Netflix) è invece stata fatta a pezzi, vediamo che cosa succederà con i prossimi film, se riusciranno a riscattare il regista di Duncan, Oklahoma (IMdB segnala, pensate un po’, 6 titoli prossimi venturi, fra cui una serie tratta da Willow e un documentario!). In realtà la nostra impressione non è stata così malvagia come la sequela di stroncature lascerebbe intuire, il film ha un suo importante respiro epico, una buona sceneggiatura (Vanessa Taylor, che aveva scritto La forma dell’acqua insieme a Guillermo Del Toro) uno stile e una struttura decisamente più originali di molte opere main stream di Howard e vanta un cast di tutto rispetto (oltre alla musica di Hans Zimmer).
Ma andiamo per ordine, cominciando dal titolo. Hillbilly è un termine dispregiativo con cui si indicano le persone provenienti da zone rurali e spesso montuose degli Stati Uniti, in particolare degli Appalachi, forse la traduzione più calzante potrebbe essere “zoticoni”. Nell’era del politically correct non è esattamente un complimento, ma i presunti hillbillies si sono per così dire appropriati di questa definizione trasformandola in fattore identitario positivo di chi non si vuole omologare alla modernizzazione imperante, in una forma di resilienza. Anthony Harkins, professore presso la Western Kentucky University, ha scritto al riguardo un’opera di riferimento, intitolata Hillbilly. A Cultural History of An American Icon. L’altro testo di riferimento sull’argomento è il memoir risalente al 2016 di J. D. Vance intitolato appunto come il film e da cui il film è tratto ovvero Hillbilly Elegy. A Memoir of Family and Culture in Crisis, un libro di notevole successo capace di scalare la classifica dei best seller negli USA. Il film, come dimostrano le scene finali, cerca di attenersi al reale raccontato da J.D. Vance persino nella somiglianza fra le persone e i personaggi.
Con un continuo ma per nulla fastidioso oscillare fra molte e diverse fasi temporali, Elegia americana racconta in sostanza una vicenda che – si parva licet – potremmo paragonare all’Orestea. Sulla famiglia di J.D. (Gabriel Basso) grava una specie di maledizione genetica: la madre Beverly detta Bev, interpretata in perfetto stile Actor’s Studio da un’eccellente Amy Adams, ingrassata e con un incarnato cereo e quasi purulento, al limite dell’irriconoscibile, è una donna, in fondo affettuosa, ma disperata, tossica, incapace di tenersi gli uomini, incapace di tenersi i vari lavoretti, la quale sottopone i propri figli, la più grande Lindsay e appunto lo stralunato e volenteroso oltreché in fondo buonissimo J. D., a una continua doccia scozzese di micro-traumi del quotidiano, invertendo clamorosamente i ruoli genitoriali visto che non si capisce più chi si occupa di chi; d’altra parte la povera Beverly è a sua volta cresciuta in una famiglia non esattamente protettiva, visto che la madre, stufa di aver a che fare con un marito ubriacone e manesco, una bella sera decide semplicemente di dargli fuoco, “spettacolo”, questo, al quale Beverly ha assistito da bambina rimanendone, come non immaginarlo, segnata per sempre. Anche se poi sua madre, la nonna di J. D. e di Lindsay ovvero Bonnie detta Mamaw, interpretata da una straordinaria Glenn Close (per altro somigliantissima alla nonna originaria) è divenuta nel corso del tempo l’unica vera istanza educativa dei nipoti, soprattutto del nipote. Ebbene, gravato dalle maledizioni e senza nemmeno l’ausilio delle Eumenidi, J. D. prova e riesce a sottrarsi, riesce a iscriversi a Yale, pur rischiando fino in fondo di venir risucchiato da quel mondo primitivo e vischioso eppur in qualche misura identitario, allorché, a un passo dal colloquio decisivo, è costretto (proprio da qui parte il film) ad affrontare un lungo viaggio verso casa per correre al capezzale della madre in overdose. L’autodeterminazione del soggetto riesce tuttavia – ed è questo il condivisibile messaggio del film – ad avere il sopravvento sulla vischiosità del mito e della tradizione.
La raffigurazione concreta del mondo hillbilly dal quale il protagonista cerca di emanciparsi presenta uno sguardo antropologico privo di pregiudizi iscrivendosi in una cartografia etnologica dell’America povera o impoverita, provinciale e nomade che in quest’ultimo anno sembra rivestire un interesse particolarmente vistoso nel cinema americano, se è vero che in lizza per gli Oscar troviamo film come Nomadland (http://www.close-up.it/venezia-77-n...) o Minari (http://www.close-up.it/verso-gli-os...). Ma se per quei due film si poteva comunque riconnettere tale centralità allo sguardo straniato di una regista di origine cinese (Chloë Zhao) e di un regista di origine coreana (Lee Isaac Chung), qui è un affermatissimo regista WASP a raccontare un mondo non esattamente glamour come quello degli Appalachi. Peccato, lo ripetiamo, che il film non abbia avuto il successo di critica che meritava (chissà: pregiudizio nei confronti degli hillbillies?) e che l’unica candidatura per gli Oscar sia la splendida Glenn Close.
(Hillbilly Elegy); Regia: Ron Howard sceneggiatura: Vanessa Taylor; fotografia: Marys Alberti; montaggio: James D. Wilcox; musica: Hans Zimmer; interpreti: Gabriel Basso (J. D. Vance), Amy Adams (Beverly), Glenn Close (Bonnie) Haley Bennett (Lindsay), Freida Pinto (Usha); produzione: Imagine Entertainment origine: Usa 2020; durata: 115’.