Viaggio da paura

Per iniziativa della coraggiosa Cineama arriva in Italia il modesto secondo film del trentacinquenne Ali F. Mostafa, intitolato con una scelta francamente indifendibile Viaggio da paura, laddove il titolo originale era From A. to B., nient’altro che le iniziali delle città fra le quali si snoda il film, un road movie: partenza da Abu Dhabi arrivo a Beirut, più o meno 2000 km di distanza. È Mostafa stesso ad esser cresciuto ad Abu Dhabi, anche se poi è a Londra che si è compiuta la sua formazione cinematografica.
Diciamo subito che il film non funziona proprio.
Non funzionano i personaggi: tre bamboccioni della jeunesse dorée degli Emirati, uno d’origine saudita, Yousef (alias Jay) figlio diciamo così ribelle di un emiro, che aspira, senza neanche troppa convinzione, a fare il DJ, un altro, Rami, d’origine siriana, figlio di un diplomatico, che sembrerebbe insegnare educazione fisica, con una mogliettina supersnob all’ottavo mese di gravidanza, l’altro ancora, d’origine egiziana, che gioca a fare il video-blogger e passa la vita a tweettare, re-tweettare e a contare i followers, schiacciato fra una mommy piuttosto ingombrante e un criceto di nome Attila (!). Diciamolo chiaramente: tre personaggi del tutto privi d’interesse, scialbi e improbabili.
Non funziona il plot: siamo nel 2011, e questi tre giovanotti, un tempo compagni di scuola alla Scuola Americana di Abu Dhabi (ma dove, sennò?), decidono – contro il parere della mogliettina, di nascosto dalla mommy - all’improvviso di partire per Beirut per portare un omaggio al loro amico, morto sei anni prima sotto le bombe. Per lo meno il video-blogger che dalla sua cameretta inneggia alla Primavera Araba si sarà pur fatta una qualche timida idea della circostanza che i tempi non sono i più propizi per attraversare nell’ordine Arabia Saudita, Giordania, Siria e Libano, per soprammercato a bordo di una macchina con targa del corpo diplomatico.
Ora, senza stare a scomodare Easy Rider o Nel corso del tempo, un road movie che si rispetti deve avere ritmo, deve avere idee, deve avere scrittura, dialoghi o, almeno, capacità di filmare paesaggi. Niente di tutto ciò: i dialoghi si trascinano ripetitivi e stanchi, i personaggi non hanno letteralmente niente da dire/da dirsi, gli episodi sono implausibili – dall’alcool nel bagagliaio al morso dello scorpione, da una sequenza di saudi skating (poesia! poesia!) allo screzio/amorazzo con due turiste israeliane in quel di Petra – fin quando, udite! udite! la Storia o meglio la Cronaca fa irruzione nelle vite balorde dei tre boys che, giunti in Siria, si trovano per ben due volte catturati da truppe regolari prima e da miliziani ribelli poi. E qui il film tocca il punto più basso in termini di plausibilità e di scrittura. Quel che il film vorrebbe dichiararci è che i tre giovanotti, come si conviene a ogni road movie, al termine del viaggio sono cresciuti, hanno trovato se stessi. Ma questa è solo una dichiarazione d’intenti, vagamente accennata nelle didascalie dei titoli di coda, ma del tutto priva di verosimiglianza narrativa all’interno di un film che comunque sceglie il realismo come modalità di scrittura e che appare tutto intento, in modo forse non propriamente etico, a trarre profitto dall’attualità, dal “bonus” medio-orientale fatto di cronaca, guerra e tragedia.
Al termine del film si ha comunque la sensazione che Marrakech Express fosse un capolavoro.
(From A. to B.) Regia: Ali F. Mustafa; sceneggiatura: Ashraf Hamdi, Mohamed Hefzy, Ronnie Khalil, Ali F. Mustafa; fotografia: Michel Dierickx; montaggio: Ali Salloum; musica: Gregory Caron, Hannes De Maeyer; interpreti: Fahad Albutairi (Yousef ‘Jay’), Shadi Alfons (Rami), Fadi Rifaai (Omar), Leem Lubany (Shadya) produzione: Twofour 54, Imagenation Abu Dhabi FZ; origine: Emirati Arabi Uniti, Giordania, Libano 2014; durata: 108’.
