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Vizio di forma

Pubblicato il 27 febbraio 2015 da Marco Di Cesare
VOTO:


Vizio di forma

Probabile si trattasse solamente di una questione di tempo prima che il principe della prosa cinematografica sperimentale dei nostri giorni, quel Paul Thomas Anderson da anni stabilitosi nei pressi di Hollywood, incontrasse il re della narrativa - sperimentale - del secondo Novecento e oltre, statunitense e non solo: il profeta del postmoderno letterario, l’innavicinabile Thomas Pynchon.

Los Angeles, 1970. Doc Sportello (Joaquin Phoenix) è un investigatore privato hippie dedito alle droghe, in particolare marijuana (e comunque lontanissimo dalll’eroina), che riceve la visita di Shasta, una sua vecchia fiamma che non vede da un anno, la quale gli chiederà aiuto per evitare che il suo attuale amante, Mickey Wolfmann, ricco imprenditore immobiliare, venga fatto internare dalla moglie e dall’amante di quest’ultima. Doc, che ha compreso di provare ancora del sentimento verso Shasta, accetterà la richiesta della ragazza, trovandosi così coinvolto in un gorgo di intrighi, situazioni e personaggi bizarri.

Detective story che procede secondo un pynchoniano accumulo, ironico racconto hard boiled, noir metropolitano dal ritmo atipico, colto alla luce di uno psichedelico sole californiano, fotografia del tramonto di un’epoca che era sbocciata appena pochi anni prima, ritratto malinconico come solo certi tramonti sanno essere: quelli che rappresentano l’epitaffio di un presente senza più un futuro davati a sé. Poiché, diversamente dalle due precedenti opere di Anderson (Il petroliere e The Master), le quali parlavano della Nascita di una Nazione, in Vizio di forma si porta al contrario in scena la Fine di una Nazione e del suo Sogno, fagocitato dalla Dura Realtà e dal ritorno alle cose. Un mondo in altre faccende affaccendato e che nessuna droga, nessuna ispirazione all’amore universale o alcuna altra utopia, più o meno sincera, più o meno utilitaristica o passeggera moda esistenziale, potrà mai annullare, rendendo anzi ancora più dura la caduta incontro alla realtà della terra: gioie, quindi, fallaci o che nascondono dolori o sentori di futuri dolori, riguardo la caducità dell’esistenza. Facendo qui pensare a Zabriskie Point, film di Antonioni del 1970 ambientato in una West Coast colta in presa diretta nel suo declino, proprio tra Los Angeles e la Valle della Morte. Inherent Vice è il titolo originale del romanzo di Pynchon come della pellicola: Vizio di forma, ’difetto intrinseco’. Ma qual è tale difetto? Quello della comunità hippie, anarchica e libertaria scheggia impazzita all’interno del sistema sociale? O quello del medesimo sistema sociale che è di per sé antropologicamente capace di reiterarsi inglobando, ai propri fini, le subculture portatrici di innovazioni nel costume? Oppure il difetto è rappresentato dal protagonista Doc, uomo etico e sentimentale in un mondo impazzito e senza più punti fermi se non il denaro (senza distinzione tra i cosiddetti ’borghesi’ e i cosiddetti ’antiborghesi’), in un’indagine di stampo morale non lontana da quella portata avanti già a suo tempo da un nume tutelare di Anderson, ossia l’Altman de il losangelino Il lungo addio del 1973? Mentre lo spirito delle efferate gesta di Charles Manson, drogato dalla volontà di ascesa sociale, fa ironico capolino in una scena di Vizio di forma, divenendo tuttavia simbolo della Fine dell’Innocenza più che emblema delle borghesi paure verso le giovanili istanze rivoluzionarie di allora.

Vizio di forma segna poi il ritorno di Paul Thomas Anderson a una forma di racconto corale, scelta che l’autore non operava dai tempi di Magnolia (1999): qui, però, troviamo un protagonista unico circondato da una miriade di altri personaggi (come in Boogie Nights - L’altra Hollywood, altra opera andersoniana che descrive il crepuscolo di un’epoca), in un rapporto tra individualità, comunitarietà e cultura condivisa, ensemble la cui dirompente forza è acuita dalla restituzione di un mondo sotto continuo effetto di stupefacenti, rappresentazione postmoderna della confusione di una metropoli che è epitome di una società umana preda del caos, qui riprendendo e rivisitando un altro ritratto di Los Angeles: il cinema classico de Il grande sonno (Howard Hawks, 1946).

È un film che ama perdersi, Vizio di forma, attraverso un copione dai complessi intrecci e una regia che lascia libera la propria mano, pellicola che scorre vorticosa e labirintica, con P.T. Anderson che ha utilizzato un approccio opposto rispetto a Il petroliere e The Master: opere dirette con mano ferma, dura e decisa, laddove l’incontro con Thomas Pynchon ha prodotto invece un’opera assai libera sì, ma affrettata nell’ultimo terzo, incapace di realizzarsi appieno, malgrado fosse questo il romanzo pynchoniano più adatto a essere portato sullo schermo. Purtroppo, nonostante le buone prove di Joaquin Phoenix e Josh Brolin e uno sfondo composito di personaggi spesso ben abbozzati, Vizio di forma è apparso più che altro come un esercizio di stile da parte di Anderson.


CAST & CREDITS

(Inherent Vice); Regia: Paul Thomas Anderson; sceneggiatura: Paul Thomas Anderson (tratta dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon); fotografia: Robert Elswit; montaggio: Leslie Jones; musica: Jonny Greenwood; interpreti: Joaquin Phoenix (Larry ’Doc’ Sportello), Josh Brolin (Det. Christian ’Bigfoot’ Bjornsen), Owen Wilson (Coy Harlingen), Katherine Waterston (Shasta Fay), Reese Witherspoon (Penny Kimball), Benicio Del Toro (Sauncho Smilax), Jena Malone (Hope Harlingen), Martin Short (Dott. Blatnoyd), Maya Rudolph (Petunia Leeway), Sasha Pieterse (Japonica Fenway), Eric Roberts (Mickey Wolfmann), Hong Chau (Jade), Martin Donovan (Crocker Fenway), Mars Crain (Tariq Khalil); produzione: Ghoulardi Film Company, Warner Bros.; distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia; origine: USA, 2014; durata: 148’; web info: sito ufficiale.


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