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Voce del verbo amore

Pubblicato il 4 maggio 2007 da Nicola Cordone


Voce del verbo amore

Ce la faranno Ugo e Francesca ad affrontare una vita da single dopo dodici anni di matrimonio? Riusciranno a prendersi quelle responsabilità, nei confronti di se stessi, che lo scioglimento di un legame comporta necessariamente, dopo aver preso coscienza dell’inevitabile mutevolezza dei sentimenti umani?
Dopo un brevissimo prologo di felicità, che precede la simpatica animazione dei titoli di testa, i due protagonisti si salutano, non privi di imbarazzo, di fronte alle porte di un tribunale civile: sarà l’inizio della fine di un rapporto o un’oscura parentesi istituzionalizzata, in una storia d’amore destinata a durare una vita intera?

I limiti imposti da un prodotto di consumo e da un genere tradizionale, non impediscono, a questo piccolo film, di fotografare con attenzione alcuni aspetti caratteristici della società contemporanea, e i due trentacinquenni borghesi finiscono per diventare stereotipi credibili di uno spaccato dell’attuale contesto storico. Innanzi tutto i personaggi appaiono, fin da principio, confusi: non sanno chi sono e cosa vogliono e interviene sempre il caso – o il destino – a prendere decisioni per loro. La loro difficoltà d’introspezione deriva, probabilmente, dall’incapacità di accettare il ruolo sociale che sono tenuti a ricoprire e dall’ansia di rispettare impegni ed obblighi morali.
‘Ero stanco di una parte di me’ confessa Ugo alla ex moglie durante un patetico mea culpa, alludendo, con questo, all’abulia di una routine tutta casa e lavoro.
Divertente e accorato è, invece, il ‘Non lo so’ con cui una vecchia fiamma di Francesca risponde alle domande circa la sua identità sessuale dopo un nuovo incontro non ‘completato’ con la protagonista.
Il vero dramma di tutti i personaggi consiste nell’impossibilità di immaginare un futuro in totale solitudine. Più che l’appagamento di una naturale esigenza umana, la vita di coppia appare una necessità indotta da uno schema sociale precostituito: la solitudine è prima di tutto un danno all’immagine.
Ugo si getta subito in un’ altra storia, Francesca tenta di fare lo stesso, il padre dell’architetto è un donnaiolo accidioso, che non passa giornata senza tormentare il figlio, Gioia snocciola massime del tipo: ‘Quando ami non puoi fare a meno di una persona, questa è la differenza con il voler bene’, rivelando la concezione egoistica dell’odierno modo di intendere il più nobile dei sentimenti umani.
Il dolore coincide sempre e soltanto con la perdita di qualcosa, come il soggetto scritto da Maurizio Costanzo ci insegna: la crisi e l’inevitabile riavvicinamento coincidono con l’improvviso malore del padre e con la scappatella pre-adolescenziale del figlio, ma è proprio in queste soluzioni facili che Voce del verbo amore mostra una sua verità esistenziale: la semplicità della sceneggiatura riflette la caoticità del vivere quotidiano ed è realmente difficile, nonostante i limiti della scrittura, astenersi da un certo gioco d’immedesimazione.

La regia risente dell’influenza di tante fiction televisive e non lascia spazio a segni autoriali di nessun tipo; non impeccabile il montaggio sonoro, privo a volte di sfumature che sarebbero, invece, necessarie e troppo artificioso in alcune scene di raccordo. E’ al montaggio visivo che vengono attribuiti i valori espressivi di maggior rilievo: il ritmo veloce delle sequenze restituisce le idee di confusione, ripetitività e, dunque, monotonia, che sono alla base del film.
Un plauso a Pasotti, infine, per aver dimostrato di sapersi destreggiare nei registri, a lui sconosciuti, della commedia sentimentale.


CAST & CREDITS

(Voce del verbo amore); Regia: Andrea Manni; sceneggiatura: Maurizio Costanzo, Anna Rita Ciccone, Silvia Ranfagni, Andrea Manni; fotografia: Massimino Pau; montaggio: Alberto Lardani; musica: Teho Teardo; interpreti: Giorgio Pasotti (Ugo), Stefania Rocca (Francesca), Magdalena Grochowska (Matilda), Cecilia Dazzi (Gioia); produzione: Rodeo Drive; distribuzione: Medusa Film; origine: Italia, 2007


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