Warm bodies

L’idea della piaga zombie nasce nel pieno contesto delle teorizzazioni sulla Società di massa.
Si porta dentro, come un morbo, suggestioni ben più lontane dei camminanti di Haiti e dei riti voodoo, ma sta ben calato nel cuore nero del secolo appena trascorso.
Indica la direzione dei cimiteri e del silenzio con dito scheletrico, mentre brandelli di stoffa simulano un mantello che non copre dal freddo e dalla notte.
Segno della fine dei tempi, la piaga zombie non chiude l’orrore nel vaso di Pandora nell’Apocalisse, ma segna solo la fine di ogni barlume di umanità. Da una parte come dall’altra del fiume di Stige, si stingono i confini tra umano e disumano. Gli uomini che subiscono l’infezione del morso diventano bocche affamate; quelli che si nascondono nella cantine in attesa dell’inevitabile diventano mostri aggrappati all’abitudine di vivere. A chi guarda la scena al di qua dello schermo resta l’imbarazzo della scelta nel dire chi dei due ricorda meno quella pietas che già Virgilio indicava a confine tra Uomo e Bestia.
L’orrore zombie, comunque, non è mai stato nel morso, ma nell’omologazione che ad esso consegue.
Meglio una pallottola conficcata nel cervello dal gesto pietoso di una pistola, che andarsene in giro a far quello che tutti fanno: continuare a fingere vita dove è solo morte.
Lo zombie è, in fondo, il ragazzino dei social network che ha bisogno del telefonino per comunicare col coetaneo. È la ragazza che al supermarket cerca la sua marca di cosmetici con cui nascondersi al mondo intorno. Sono le cuffiette degli I-pod che ci rendono sordi al mondo che preme dentro i nostri occhi.
In dissolvenza Warm bodies mette una sopra l’altra l’immagine del nostro oggi e quella di un domani popolato di morti viventi e le scopre uguali in filigrana. Incapaci a comunicare prima, bloccati nei grugniti poi.
Gli zombie già abitano il mondo. I Maya hanno sempre avuto ragione: la fine di tutti i tempi c’è già stata e noi ci crogioliamo ora all’ombra dell’idea che la vita continui, ma quella che continua non è vita. È solo il placido procedere di un commercio che, nel trionfo della catena di montaggio anche dentro le nostre vite quotidiane, rende pochi sempre più ricchi e il resto di noi ad abbruttirsi nell’abitudine.
Warm bodies non è uno zombie movie. Lo fosse stato sarebbe venuto fuori brutto ed antipatico. È, piuttosto, un film sull’archetipo che sta alla base degli zombie movie. È un film sul contagio che ci rende tutti uguali e sulla speranza di poter tornare indietro anche dal mondo degli omologati.
Racconta la piaga al contrario. L’amore morde un cuore e lo fa battere d’un battito diverso: un individuo, finalmente, nella massa, un solitario che fa paura a tutti perché sta in mezzo ai mondi a proclamare che, sì, esiste e cerca un suo perché.
Dopo tanto cinema della disillusione e della fine di tutti i tempi che venga una storia a raccontarci dell’utopia di un altro mondo e di un esempio che sappia contagiare gli altri nella buona pratica, va salutato con affetto e gratitudine.
Peccato solo, allora, che il film affoghi la splendida premessa nelle derive di un Romeo e Giulietta che ha ancora la bocca sporca del latte dei cioccolatini di San Valentino. Il versante sentimentale, che per fortuna non sommerge del tutto l’anima dolente di fiaba nera e scura in cerca di luce, risulta il passo falso di un film che resta prodotto. Cerca, Warm bodies, la sintonia col pubblico adolescenziale, delle ragazzine orfane di Twilight: nel pieno della lobotomia dei sentimenti, tra gli zombie di nuova generazione. E non si capisce bene fino a che punto sia nuovo morso o vecchia carne marcescente.
Ma colpisce, in ogni caso, per una certa originalità di sguardo e per l’ottimo Nicholas Hoult che appronta un nuovo Edward scissorhands con denti al posto delle forbici.
(Warm Bodies); Regia: Jonathan Levine; sceneggiatura: Jonathan Levine; fotografia: Javier Aguirresarobe; montaggio: Nancy Richardson; musica: Marco Beltrami, Buck Sanders; interpreti: Nicholas Hoult, Teresa Palmer, John Malkovich, Dave Franco, Analeigh Tipton, Rob Corddry, Cory Hardrict; produzione: Make Movies, Mandeville Films, Summit Entertainment; distribuzione: Lucky Red; origine: USA, 2013; durata: 97’; webinfo: Sito ufficiale
