Westwood. Punk. Icona. Attivista.
Si è da poco conclusa la Milano Fashion Week e il mondo della moda proprio in quei giorni ha perso uno dei suoi diamanti più scintillanti, Karl Lagerfeld, geniale e iconico direttore creativo della Maison Chanel, mentre in Italia è uscito il primo film su Vivienne Westwood, stilista britannica altrettanto iconica e geniale, anche se per aspetti e motivi diversi rispetto al leggendario ed eclettico collega tedesco.
Il documentario, presentato al Sundance Film Festival 2018, è diretto da Lorna Tucker, giovane regista inglese di video rock e promo musicali, al suo primo lungometraggio il cui titolo, con i tre sostantivi, rivela il ritratto di una donna che con talento, coraggio e determinazione ha caratterizzato in modo incisivo, non solo il rutilante mondo della moda, ma anche la storia e la cultura di diverse generazioni. Le prime battute dell’intervista di apertura del film, pronunciate con la sua voce dolce e pacata, ci svelano immediatamente la personalità affilata e il temperamento non convenzionale che l’hanno portata ad essere un’icona punk, una stilista simbolo, un’attivista sociale ed ambientale e un’imprenditrice appassionata che sceglie di non vendere quello che non le piace e non trasforma il suo brand in una multinazionale. Attraverso il materiale d’archivio e quello inedito, numerose foto e diverse interviste a familiari, amici e collaboratori, Lorna Tucker ci racconta, in modo frammentato e con salti temporali, la storia privata e pubblica di Vivienne Westwood che a cinque anni crea il suo primo paio di scarpe, a dodici confeziona i suoi vestiti da sola e a settantasette anni desidera solamente studiare il cinese.
Siamo negli anni ’60, il rock and roll infuria e Vivienne si sposa con Derek Westwood, da cui ha un figlio, ma si sente costretta in uno stile di vita che le impedisce di trovare la sua “visione del mondo” e l’incontro con Malcolm McLaren, impresario e manager dei Sex Pistols, mette fine a questa sua stagione della vita proiettandola in un’altra dimensione, quella del movimento punk, del quale è artefice ed esponente, e che non esita a definire una strategia di distrazione, di marketing e non solo un assalto frontale all’establishment, riconoscendo alla società inglese il merito di consentire ai movimenti di esprimersi liberamente. È in questo periodo che cresce la sua ambizione a diventare fashion designer e a far parte del mondo della moda per assecondare il suo mood creativo e senza voler essere etichettata come artista underground, nonostante la sua sovversiva originalità. A chi le domanda cosa ci fa un’anarchica della moda a Parigi, risponde: “Non voglio certo essere underground, voglio essere nel punto più a fuoco che riesco a trovare”. All’inizio del suo ingresso nello star system della moda si trova ad affrontare situazioni finanziarie complicate e l’avversione della stampa, ma non si scoraggia, anzi, ne fa un punto di forza fino ad ottenere importanti riconoscimenti, il titolo di Dama dalla Regina Elisabetta, l’esposizione delle sue più famose creazioni al Victoria and Albert Museum di Londra e un posto nell’Olimpo dell’haute couture accanto a Dior, Chanel, Gucci. Bellissimi i filmati delle sue memorabili passerelle dallo stile eccentrico, sopra le righe, nelle quali le modelle interpretano gli abiti oltre che indossarli. Vere e proprie feste piuttosto che sfilate impeccabili ma ingessate: oltraggiose, ma piene di glamour, come ricorda Kate Moss. Per Vivienne Westwood successo e denaro non sono così esaurienti, sente di dover fare qualcosa di più ed ecco che sposa la causa ambientalista sostenendo attivamente Greenpeace per la missione di sensibilizzazione sui pericoli del cambiamento climatico nel Circolo Polare Artico e per lo sviluppo di una green economy: idee e ideali che non esita ad estendere alle sue creazioni, al brand e alle passerelle.
Il documentario racconta anche l’aspetto più privato della vita di Vivienne Westwood, il suo rapporto con i due figli e il connubio sentimentale e artistico con Andreas Kronthaler, marito devoto e premuroso e infaticabile collaboratore con il quale lavora nello stile dei tradizionali couturiers.
Sembra che Vivienne Westwood non sia rimasta soddisfatta del film che ha richiesto tre anni per la sua realizzazione. Il risultato è un documentario nel complesso gradevole, anche se a tratti didascalico e abbozzato, con una buona colonna sonora e senza quegli orpelli da videoclip che caratterizzano ogni racconto che ha come scenario la moda. Al centro il ritratto essenziale di un’artista al di sopra delle convenzioni, provocatoria, schietta, dall’anima punk rock, ma sempre femminile e talmente sicura e consapevole di se stessa da permettersi di vestire tuttora, ad oltre settanta anni, in modo trasgressivo e alla moda senza stonare o sembrare ridicola. Una donna che non ha timore di dichiarare in un’intervista: “Non mi interessa. Chi vuole sentire questa roba?”. Una chiosa davvero rock.
(Westwood. Punk. Icona. Attivista.); regia: Lorna Tucker; produttori: Eleanor Emptage, Shirine Best, Nicole Stott, John Battsek; produzione esecutiva: Anna Godas, Leo Haidar; montaggio: Paul Carlin; musiche e arrangiamenti: Dan Jones; distribuzione: Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema; origine: UK, 2018; durata: 80’