Where To Invade Next

Un po’ Giochi senza frontiere un po’ Voyager, è questa l’impressione che lascia il semplicistico film di Michael Moore, presentato in prima Europea a Berlino, alcuni mesi dopo la prima del festival di Toronto e ora finalmente nelle sale italiane. Un documentario, si badi bene, basato su una premessa fictional che più fictional non si può: convocato dal Pentagono, presente in tutte le più alte cariche militari di terra, di cielo e di mare, Moore convince i capi di stato maggiore a spedire lui, esercito d’un sol uomo, in giro per il mondo, a “invadere” diversi paesi, piantandovi la star spangled banner. Moore convince il Pentagono basandosi su un elementare ragionamento: dalla seconda guerra mondiale in avanti, le truppe statunitensi hanno partecipato a numerose guerre, ma non ne hanno più vinta una. È giunto il momento, vivaddio, di far riposare i soldati. Alle prossime invasioni ci penserà il regista. Appare chiaro fin dal primo paese che cosa Moore intenda con invasione: visitare il paese e captare quanto di buono esso abbia da offrire agli USA e, simbolicamente, appropriarsi di quel modello per poi provare ad applicarlo in patria. Guarda caso il primo paese (di una lunga serie di paesi “invasi) è proprio l’Italia, ed è proprio vedendo come Moore tratta l’Italia che lo spettatore non solo italiano si rende conto che il film non può funzionare. Moore visita una coppia fiorentina, una ditta che produce abbigliamento per le grandi firme e la Ducati. Che cosa ne ricava? Che in Italia esiste la tredicesima (in USA no), le ferie (molte rispetto agli standard americani) pagate, cinque mesi (due prima e tre dopo) di permesso pagato per maternità, che gli operai di un’azienda non fanno la pausa pranzo in mensa ma vanno a casa e si mettono di fronte a un desco a celebrare i riti conviviali (eh?), tornando solo dopo due ore sul posto di lavoro, che gli imprenditori sono felici di vedere quanto sono felici gli operai (eh?) e che, più in generale, gli italiani sono sempre felici perché probabilmente fanno spesso l’amore etc. Ma stiamo scherzando? Insieme a preziose conquiste sociali, giuste e vere, ci troviamo di fronte a una smodata serie di insopportabili cliché, con tanto di Volare, La donna è mobile per produrre un risultato che definire, appunto semplicistico, è dir poco. Poi Moore va in Francia ed elogia le mense scolastiche che sembrano gestite da Bocuse e che educano i bambini a una corretta alimentazione; poi va – in ordine sparso – in Norvegia a celebrare il sistema carcerario modello, improntato a rieducazione vera del detenuto e libertà, in Portogallo a celebrare la liberalizzazione delle sostanze stupefacenti, in Tunisia a celebrare la legislazione sull’aborto e in Islanda a celebrare la pionieristica uguaglianza fra donne e uomini (fu l’Islanda ad avere la prima presidente della repubblica al mondo), in Germania a celebrare la perfetta organizzazione aziendale e la perfetta cultura memoriale, in Slovenia a celebrare lo studio universitario gratuito, in Finlandia a celebrare il sistema scolastico migliore del mondo, basato su un bassissimo numero di ore di docenza. Ripetiamo: in ciascun paese cose vere, ma anche tanti tanti cliché improntati a un buonismo insostenibile; ed è inutile dire che i pesanti conflitti economici e sociali, etici, religiosi che attraversano e spaccano la gran parte dei paesi “invasi” dal regista non vengono neanche lontanamente sfiorati.
Al termine di ciascuna tappa Moore simbolicamente pianta la bandiera americana, anche se poi l’intenzione è esattamente contraria perché si tratta, lo dicevamo, di importare in USA tutti questi valori “europei”. Tuttavia, come afferma il regista verso la fine di questo film un po’ troppo lungo, non si tratterebbe, a ben vedere, nemmeno di acquisizioni solo europee o autenticamente europee perché buona parte di queste conquiste sociali l’America delle origini, del passato le aveva già raggiunte, salvo poi, per così dire, dimenticarsene per lasciarsi andare a disumanità e profitto. E anche su questa affermazione, su questa presunta primogenitura ci sarebbe molto da dire. Un dato, comunque, risulta evidente dopo pochi minuti del film: si tratta di un’opera rivolta esclusivamente al pubblico americano, pensata per il pubblico americano, mediamente ignaro di ciò che accade oltre i confini del proprio paese; fuori dagli USA Where to invade next non aggiunge davvero nulla (semmai toglie…) alla filmografia del regista del Michigan, pur al netto di qualche risata originata dall’uso sistematico della figura retorica dell’antifrasi. Anche l’epilogo è, sul piano drammaturgico, parecchio forzato: il regista passeggia, data la mole sarebbe più corretto dire: caracolla, davanti a quella striscia di muro di Berlino, rimasta vicino al Martin Gropius Bau e ragiona sul fatto che se quel muro è caduto a colpi di martello e di scalpello, se Mandela è diventato presidente del Sudafrica, allora è davvero possibile tutto.
L’ingenuo afflato illuminista di Michael Moore è tutto qua.
(Where to invade next); Regia: Michael Moore; montaggio: Pablo Proenza, Todd Woody Richman, Tyler H. Walk; interpreti: Michael Moore, Krista Kiuru, Tim Walker; produzione: Dog Eat Dog Films; origine: USA, 2015; durata: 119’
