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White Deer Plain

Pubblicato il 15 febbraio 2012 da Matteo Galli


White Deer Plain

Berlino tende a fidelizzare i registi. Magari cominciano con la sezione “Forum” o con “Panorama”, poi passano al tabellone principale e lì presentano più volte i propri film. Uno dei registi fidelizzati nell’arco dell’ultimo decennio è il cinese Wang Quan’an che vanta una tipica “biografia” berlinese: nel 2004 presenta il suo secondo film in “Panorama”, nel 2007 passa in Concorso e vince l’Orso d’Oro con Il matrimonio di Tuya, nel 2010 apre, fuori concorso, la manifestazione con Apart Together e quest’anno torna in concorso con White Deer Plain. Diciamolo subito: se Wang Quan’an il suo bell’Orso non se lo fosse già vinto cinque anni fa, oggi saremmo qui a considerarlo come un serio candidato al premio principale, magari soltanto faute de mieux, vista - almeno fin qui – l’estrema povertà dei film in Concorso. E dire che il film dura 177 minuti, è il più lungo di tutti, ma se si entra – e si entra abbastanza facilmente – nel respiro epico della pellicola le quasi tre ore scorrono bene. Finalmente un film che di materia da raccontare ne ha, con almeno 7/8 personaggi ben tratteggiati, scritto bene, girato bene, che riesce a trarre il massimo profitto dal paesaggio – la piana coltivata a grano di cui al titolo – senza (quasi) mai essere rileccato, che negozia conflitti di proporzioni autenticamente tragiche sull’asse patrilineare (come molti film di questa Berlinale, per altro): l’onore, l’amore, la tradizione, il sesso, l’obbedienza, che racconta anche un ampio spaccato della storia cinese dagli anni ’10 agli anni ’30 del Novecento. Il tema di fondo ha a che fare proprio con l’irruzione della macrostoria nell’universo apparentemente perenne della cultura agreste arcaica governata da due potenti clan, dove ancora regnano sovrani i matrimoni combinati, il ruolo meramente ancillare delle donne, i riti feudali dettati dall’alternarsi ciclico delle stagioni. Tutto immutabile, sembrerebbe. Ma l’arrivo dei tempi nuovi – la repubblica, i vari governanti che si succedono negli anni della guerra civile – mette in movimento dinamiche familiari, di classe, di genere che squassano dalle fondamenta le gerarchie. Fra le tante cose che succedono nel film quella più importante è senz’altro una sana ondata di liberazione sessuale, incarnata (è il caso di dirlo) dalla figura di Tian Xiao’e, capace nell’arco di quasi tre ore, nell’ordine, di: 1) propinare al primo marito datteri (in sala fra i non anglofoni serpeggiava la domanda, ma cosa sono ’sti “dates”? l’ho decifrato solo a proiezione ultimata...) anziché sotto spirito, sotto urina; 2) dar vita al primo caso di concubinaggio del villaggio insieme al figlio di un contadino adottato da uno dei capo clan (ponendo, peraltro, come condizione al concubino una regolare fornitura di oppio, altrimenti niente); 3) farsi un amante, che miagola alla luna, non appena il compagno, a causa delle turbolenze politiche, è costretto a cambiare aria; 4) guarire un impotente (il figlio dell’altro capo-clan) che poi la mette incinta; 5) sottoporre lo stesso capo clan a una seduta di pissing (ciò che dà luogo alla battuta più esilarante dell’intero film: lei glielo chiede, lui acconsente, lei esegue e lui s’arrabbia, dicendo: “pensavo fosse una metafora”); 5) pagare con una pugnalata alla schiena la sua anarchia sessuale, femmina-strega e capro espiatorio sulle cui ceneri verrà riedificato un nuovo tempio, nell’ormai vano tentativo di fermare il tempo – e infatti il film si chiude con i bombardamenti del 1938 che spazzano via il villaggio. Gli edifici di sicuro, i costumi non si sa: visto che uno dei grandi vecchi, ormai aggrappato alle stampelle, riesce anche stavolta a rimettersi in piedi, forse quella Cina arcaica non muore proprio mai. Di nuovo, come nel caso di Tuya e della protagonista di Apart Together, Quan’an pone al centro della narrazione una figura femminile, vero turbine, forse addirittura superiore al turbine della Storia. Tratto da un romanzo dello scrittore Chen Zhongshi che per anni fu messo all’indice a causa delle esplicite scene di sesso, White Deer Plain rientra nella grande categoria dell’epos nazional-familiare, un piccolo Novecento cinese. E un bel film.


CAST & CREDITS

Regia, sceneggiatura, montaggio: Wang Quan’an da un romanzo di Chen Zhongshi; fotografia: Lutz Reitemeier; interpreti: Zhang Fengyi (Bai Jiaxuan), Zhang Yuqi ( Tian Xiao’e) Wu Gang (Lu Zilin) Duan Yihong (Hei Wa), Cheng Taisheng (Bai Xiaowen), Liu Wei (Lu San) Guo Tao (Lu Zhaopeng) Xu Huanshan (Master Guo); produzione: Bai Lu Yuan Film Company, Pechino; origine: Cina; durata: 177’.


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